Sea Shepherd – L’irriducibile Capitano Watson

8 Novembre 2024 Blog

Il 15 luglio del 1979, quando il Capitano Paul Watson avvistò la Sierra, nave baleniera pirata, stappò una birra soddisfatto: aveva trovato l’ago nel pagliaio.

Partito dal porto di Boston quindici giorni prima lo skipper canadese, allora ventinovenne, aveva percorso migliaia di miglia nautiche con un solo obiettivo in testa: speronare la Sierra. Voleva mettere fine al massacro illegale dei cetacei, un massacro stimato, fino a quel giorno, in 25.000 esemplari. Con la scusa delle competenze territoriali, capitanerie di porto e autorità marine sembravano ignorare le malefatte dalla baleniera.

Ci riuscì il giorno dopo, a speronarla, quando le condizioni meteo tornarono favorevoli. La colpì due volte con le macchine avanti tutta. Per prima colpì la prua. Poi, dopo aver tracciato un lungo arco per la rincorsa, toccò alla poppa. La Sea Shepherd, così si chiamava la nave di Watson, distrusse il vano di carico e le attrezzature che servivano per issare a bordo le balene catturate. Prima di speronare Watson aveva chiamato per radio il comandante, dicendogli di sgomberare il ponte e di mettere i suoi uomini in sicurezza.

Erano anni che il Capitano Watson aspettava quel momento. Lungo il tragitto aveva visto porte chiuse in faccia, sguardi allibiti. Ma poi la fiducia arrivò con un finanziamento dall’organizzazione ambientalista Fund for Animals, che gli consentì l’acquisto di una rompighiaccio da 699 tonnellate con la chiglia rinforzata al cemento. In una delle sue tappe aveva convinto la Shell, con un trucco, a fargli credito sulla metà del carburante e dei lubrificanti. Prima ancora, a Boston, aveva messo a terra un volontario appena diciottenne perché la prospettiva era l’arresto, che avvenne. Dopo un lungo inseguimento verso le acque territoriali britanniche con una nave da guerra portoghese alle calcagna, Paul Watson si arrese. Ma in cella non ci restò a lungo: il comandante della Sierra non lo aveva denunciato. Succede spesso che la malavita non sporga denuncia, inoltre la capitaneria di porto portoghese non era riuscita, a suo dire, a risalire ai proprietari della baleniera. L’intera faccenda forniva più di una scusa per lavarsi le mani anche del caso Watson, come aveva fatto per anni, con la Sierra. Venne liberato, ma la sua nave restò sotto sequestro.

Quando però capì che sarebbe stata messa all’asta per compensare i danni alla Sierra, Watson prese la decisione di affondarla. S’intrufolò a bordo nottetempo e sbullonò il collettore della presa a mare, quella temutissima valvola sotto la linea di galleggiamento che porta acqua ai motori per raffreddarli. La Sea Shepherd affondò nel porto di Lisbona sotto gli occhi di migliaia di curiosi esterrefatti, e lui riuscì a lasciare il paese eludendo i controlli all’aeroporto facendo amicizia con un’assistente di volo.

“Per fermare i pirati ci vogliono i Pirati”
Lo dichiarò in un’intervista citando Henry Morgan. Non a caso aveva scelto di modificare il Jolly Roger, la bandiera della pirateria, per farne l’emblema di Sea Shepherd. Ma le ire degli altri gruppi ambientalisti non si fecero attendere: ‘Ha distrutto dieci anni di paziente lavoro non violento!’ ‘È  un pazzo mitomane!’. Erano, e sono ancora, le accuse più frequenti contro di lui. Soprattutto da parte di Greenpeace che lo definì, tout-court, un terrorista. C’era della vecchia ruggine, ovviamente, tra Watson e Greenpeace.

Nel 1970 i test nucleari erano al centro delle preoccupazioni degli ambientalisti e non solo. All’interno del Sierra Club, la più antica e autorevole associazione scientifico-ambientalista degli Stati Uniti, fondata da John Muir in persona, si formò un comitato. Il suo nome era: Don’t  Make a Wave Commitee. Il gruppo si opponeva ai test nucleari sotterranei condotti dagli americani nelle isole Aleutine. Nel 1972 Il comitato si staccò dal Sierra Club, più simile al Rotary che a un gruppo ambientalista d’azione, per dar vita alla Greenpeace Foundation. Paul Watson era tra loro. Ma lui e Greenpeace presero strade diverse molto presto. Per Watson attaccare striscioni alle navi che trasportavano uccisori di foche o di cetacei, non era abbastanza: quelle navi dovevano essere fermate fisicamente. Sapeva anche che solo con le azioni drammatiche avrebbe raggiunto l’audience che quei problemi del mare meritavano. Aveva studiato Scienze delle Comunicazioni alla Simon Fraser University e proprio lì aveva capito che se l’approccio fosse rimasto puramente accademico i problemi ambientali non avrebbero mai fatto presa sul pubblico. Serviva il pathos, lo shock. Serviva un’arena dove la gente si sarebbe azzuffata in estenuanti polemiche: pagine dei giornali, talk-show. Paul Watson era determinato: voleva portare il dramma del mare nei nostri salotti. L’avrebbe fatto a tinte epiche e, dal 1982 in poi forte di un mandato offerto dalle Nazioni Unite. Quel mandato gli offriva una copertura legale internazionale.

“Le campagne di Sea Shepherd sono guidate dalle United Nations World Charter for Nature. I punti 21-24 della Carta forniscono agli individui l’autorità di agire in suo nome e di far rispettare le leggi internazionali per la conservazione.”
Nel 2008 ottenne ciò che veramente voleva: l’attenzione globale sui problemi dei mari. L’ottenne con Whale Wars, Guerra alle baleniere, diffuso da Animal Planet. Il programma documentava un confronto spettacolare intorno all’Antartide: quello tra le navi di Sea Shepherd e le baleniere giapponesi.

 

Ma com’era riuscito ad armare una flotta e a costruirsi una credibilità a tutto campo?

Molti anni prima, forse con l’intento di stimolare i sentimenti dei conservatori americani, notoriamente meno sensibili all’ambiente, Paul Watson aveva sfidato l’Unione Sovietica. La cortina di ferro era ancora in piedi, ma Watson la oltrepassò nell’arcipelago delle Aleutine, un filo sottile di isole che si stende dall’Alaska alla penisola della Kamchatka, dove gli USA confinano con la Russia. Il primo obiettivo era documentare una centro di macellazione delle balene, struttura tenuta nascosta agli occhi del mondo. Il secondo, neanche a dirlo, speronare una baleniera sovietica. Se fosse andata male la prospettiva ovvia sarebbe stata la galera, con l’accusa di spionaggio. Ancora peggio, all’epoca le due potenze si reclamavano a vicenda le spie vere. Cercavano di farlo presto, prima che spifferassero segreti. Gli ambientalisti rompiballe li avrebbero lasciati marcire, più che volentieri, in un gulag. Ma lui e altri matti, tra volontari e reporter, accettarono la sfida.

Fu nell’isola mattatoio che due tizi in colbacco, cappotto lungo e AK47 in spalla s’accorsero dello strano gruppetto che s’allontanava in gommone. Mentre quei due a riva puntavano i fucili, Paul Watson e i fotografi continuarono a salutare. È difficile sparare a qualcuno disarmato che ti guarda e sorride. Con quei due giovani soldati russi andò così. Ma l’allarme era scattato: una portaelicotteri sovietica, quindi, intercetta la nave di Sea Shepherd e l’affianca mentre è ancora in acque sovietiche. Paul Watson prende il mike e inizia a raccontare storie per radio ad una nave da guerra pronta ad aprire il fuoco, o all’arrembaggio. Guadagna solo pochi minuti di genuina perplessità nell’equipaggio sovietico: due elicotteri gli ronzano intorno da tempo e quelli a bordo della nave di Watson si vedono già tutti affondati. O in Siberia. Poi il miracolo: una megattera si mette in mezzo alle due navi a poche miglia dalle acque americane.

“Una volta, era nel 1975 misi la mia persona come scudo tra l’arpione di un baleniera sovietica e un cetaceo. Successivamente un cetaceo fece da scudo tra noi e la Marina Sovietica”

Sea Shepherd ha contrastato la pesca alla focena ‘vaquita’ (piccola vacca in spagnol0) , un cetaceo virtualmente estinto nel Mare di Cortez, fronteggiando i narcotrafficanti che gestivano il contrabbando della specie target, il Totoaba. Ha contrastato il massacro di delfini a Taiji in Giappone, dei globicefali alle isole Farøe, in Danimarca. Ha combattuto, e vinto, la caccia alle balene nell’Oceano Meridionale.

Paul Watson, partendo dalla protezione dei cetacei, ha armato la flotta ambientalista più consistente e meglio organizzata del mondo. Lo ha fatto attirando il sostegno di facoltose personalità, soprattutto dello spettacolo, battezzando le sue navi con il nome dei donatori. La nave Sea Shepherd ‘Brigitte Bardot’ è sicuramente l’esempio migliore per il pubblico italiano. Sono in molti, oggi, a domandarsi se Sea Shepherd non batta la bandiera di un vero e proprio Stato, e la sua flotta a una marina militare.

Partendo dai cetacei il Capitano Watson ha iniziato a combattere le reti a strascico, poi la pesca illegale al tonno, i bracconieri delle coste dell’Africa Occidentale e lo shark-finning, pratica crudele che comporta la cattura dello squalo al solo scopo di asportarne le pinne. Una pesca remunerativa, ma una vera piaga per gli oceani: rimuovere i predatori d’apice comporta uno sconvolgimento pari alla cancellazione delle specie che stanno alla base della piramide alimentare. Nela lotta allo shark-finning si beccò un mandato di cattura internazionale, spiccato dal Costarica ed eseguito in Germania nel 2012. Uscì su cauzione, pagata da Pierce Brosnan, famoso James Bond nel cinema.

La faccenda ebbe inizio il 20 aprile 2002, quando la nave Ocean Warrior, al comando del Capitano Watson, si diresse in Costa Rica su invito del governo. Sea Shepherd era stata invitata a proteggere il famoso santuario marino di Cocos Island. Un giorno, mentre incrociava le acque territoriali guatemalteche, l’Ocean Warrior si imbatté nel Varadero I, nave registrata in Costarica, sorpresa a pescare illegalmente squali. Le autorità del Guatemala autorizzarono il Capitano Watson a scortare la nave al porto più vicino per eseguire l’arresto dell’equipaggio. Pochi giorni dopo l’equipaggio del Varadero I denunciò il Capitano Watson per intralcio alla navigazione e tentato disastro. L’intero episodio è stato ripreso nel film  Sharkwater, del regista canadese Rob Stewart,  scomparso nel 2017.

 

Malgrado la disputa legale, Sea Shepherd continuò a mantenere il suo impegno per la protezione della riserva marina dell’isola di Cocos, territorio costaricano, contro i bracconieri che minacciavano la consistente popolazione di squali. Sette anni dopo, il 12 marzo 2019  la corte d’appello di San José si è pronunciata a favore del capitano Paul Watson, lasciando cadere tutte le accuse e cancellando il mandato di arresto internazionale.

“Questa difficoltà è ormai passata. Voglio ringraziare il popolo del Costa Rica per la sua solidarietà, l’equanimità del suo attuale governo, e in particolare la comprensione e il sostegno del Ministro dell’Ambiente” ha dichiarato Paul Watson dopo la sentenza di assoluzione.
Arrestato e rilasciato più volte, le sue brevi prigionie e i suoi mandati di cattura internazionali riflettono l’inconsistenza delle disposizioni locali contro le leggi internazionali del mare. Queste ultime Watson le conosce bene, come le conosce Carola Rackete. Considerato dai detrattori un terrorista ambientalista, Paul Watson ha portato la guerra tra l’essere umano e le specie selvatiche (conflitto che dura da almeno 20.000 anni) nelle nostre case, sui nostri tablet e smartphone. L’ha spettacolarizzata offrendoci la prospettiva di quello che lui chiama ‘il mio cliente’: la vita negli oceani.

Duro, irriducibile, per niente facile, il Capitano Watson non s’è mai allineato al politically correct. Non si preoccupa mai di cosa penserebbero gli altri: lui ha un solo interesse, il Mare, e prosegue dritto per la sua strada senza compromessi, senza sconti per nessuno. Non sono pochi a storcere il naso davanti al suo concetto di ‘marina militare al servizio delle creature marine’, ma è stato grazie al suo modo di agire che le baleniere giapponesi oggi non cacciano più nelle acque dell’Antartide, tanto per dirne una. Pirata fino a un certo punto, si muove impugnando la carta delle Nazioni Unite. E non c’è altro posto come il mare, luogo senza confini, dove queste disposizioni siano più applicabili.

Nella sua biografia, Ocean Warrior, Paul Watson conclude con queste parole:

“A dispetto di tutto quello che mi è stato fatto o è stato detto di me, dal 16 luglio 1979, giorno in cui speronai la Sierra, io sono un uomo felice”
E ci possiamo credere, visto il successo dirompente della sua strategia. Ma a mio avviso c’è un altro momento importante nella sua vita: é quel giorno in cui la megattera si piazzò tra la sua imbarcazione e la nave da guerra sovietica. Quel giorno il Mare non solo gli restituì il favore: lo invitò a entrare dritto nella leggenda.

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