40 anni fa l’assassinio di Indira Gandhi, “Lady di Ferro” dell’India
Francesca Salvatore
Un cognome che in India è come una benedizione: tuttavia, Indira Gandhi-o meglio “Indira”(pronunciato “Indra”) come la chiamano nel subcontinente, non aveva nulla a che fare con il Mahatma. Era invece figlia di un altro grande del Paese, Jawaharlal Nehru, “Pandit” d’India nonché a lungo Primo Ministro. Ed è proprio accanto al celebre padre che l’unica donna che abbia mai governato il Paese apprese l’arte del governo: “Il mondo è stato la mia Università“, amava ripetere una volta al potere.
L’eredità e i metodi di Gandhi furono molto controversi e ancora oggi generano profondo dibattito. Classe 1917, è stata al fianco del padre fin dall’Indipendenza nel 1947, ma non come serafica subalterna bensì con incarichi di alto prestigio che costituirono un avviamento lento ma incessante alla guida dell’India. Quando i tempi furono maturi, nel 1966, divenne Primo Ministro: ruolo che ricoprì per tre mandati consecutivi (1966-1977) e un quarto mandato dal 1980 fino alla fine dei suoi giorni. La sua ascesa fu un compromesso tra l’ala destra e quella sinistra del Congress Party, sebbene la sua leadership fu messa continuamente in discussione dall’ala destra, guidata dall’ex ministro delle finanze Morarji Desai.
Nel 1969, le tensioni interne al partito culminarono nell’espulsione, orchestrata da Desai e dai membri della vecchia guardia. Ma Gandhi, determinata a non farsi fermare, formò una nuova fazione, il “Nuovo” Congresso, che conquistò una schiacciante vittoria nelle elezioni del Lok Sabha del 1971, superando una coalizione di partiti conservatori. A rafforzare la propria postura, il conflitto secessionista dell’Est Pakistan, oggi Bangladesh, durante il quale Gandhi si schierò con assertività a favore della causa, mentre le forze armate indiane ottennero una rapida e decisiva vittoria contro il Pakistan. In un gesto istrionico ed epocale, divenne la prima leader mondiale a riconoscere ufficialmente il nuovo Stato.
La sua gestione autoritaria, caratterizzata dall’aver messo sotto chiave il potere, ha sollevato seri interrogativi sulla democrazia indiana. Nel 1975, la dichiarazione dello stato di emergenza le permise di sospendere le elezioni e limitare le libertà civili, portando all’arresto di numerosi oppositori politici. Nel 1971, Raj Narain, suo avversario, la accusò di violazioni delle leggi elettorali, portando a una sentenza sfavorevole da parte dell’Alta Corte di Allahabad nel giugno 1975. Questa decisione comportò la perdita del suo seggio parlamentare e un’estromissione di sei anni dalla politica. Sebbene presentasse ricorso alla Corte Suprema, Gandhi poté mantenere la carica di primo ministro, ma senza i privilegi parlamentari. Fu allora che,il 25 giugno 1975, il presidente Fakhruddin Ali Ahmed dichiarò lo stato di emergenza in India, su consiglio di Gandhi. Questo terzo stato di emergenza, già attuato in contesti di guerra, durò 21 mesi e consentì a Gandhi di imprigionare i suoi oppositori politici e di esercitare poteri straordinari. Durante questo periodo, implementò politiche molto impopolari, tra cui la sterilizzazione forzata come metodo di controllo delle nascite, mentre il governo intensificò la repressione dei sindacati e dei diritti dei lavoratori.
Se suo padre si era fatto corteggiare dagli Stati Uniti di John F.Kennedy, Gandhi sterzò decisamente verso l’Unione Sovietica, nonostante New Delhi continuasse a professarsi campione di non-allineamento. La politica economica perseguita dall’energica Prima Ministra, come la nazionalizzazione di banche e industrie strategiche, venne accolta con entusiasmo per la sua ambizione a ridistribuire la ricchezza fra milioni di cittadini. Tuttavia, molti critici ancora oggi sostengono che queste scelte abbiano generato gravi inefficienze e pompato la corruzione. Furono numerose le miopie dell’Indira d’India in fatto di politica estera: avrebbe potuto usare il predominio regionale dell’India per costruire una comunità politica asiatica e formulare una strategia per l’adiacente Golfo Persico.
Ma non fu così, e i suoi errori di politica interna la portarono alla caduta nel 1977. Il più grave di tutti, avvenne poco prima di morire. Nel giugno del 1984 le tensioni tra il governo indiano e la comunità sikh del Punjab raggiunsero vette mai toccate. Con l’Operazione Blustar, i militari vennero spediti all’interno del perimetro del Tempio d’oro di Amritsar, luogo sacro per i sikh: scopo dell’operazione era quello di eliminare i militanti rivoluzionari, guidati dal leader Jarnail Singh Bhindranwale. Fu un massacro.
Quasi cinque mesi dopo, il 31 ottobre, Indira Gandhi era di ritorno nella sua residenza da un tour elettorale nello Stato dell’Orissa. Si apprestava a recarsi nel suo giardino quando le sue due guardie del corpo, due sikh, Beant Singh e Satwant Singh le scaricarono addosso una raffica di proiettili. Morì sul colpo. Poche ore dopo la sua morte il Paese venne preso dalla totale follia e crudeltà degli indù contro i sikh: assassinii, stupri, incendi e violenze di ogni tipo scossero soprattutto Nuova Delhi. Trascorsi 12 giorni di lutto, le ceneri di “Indra” venne sparse sull’Himalaya.
“Non ho l’ambizione di vivere a lungo, ma sono fiera di mettere la mia vita al servizio della nazione. Se dovessi morire oggi, ogni goccia del mio sangue fortificherebbe l’India“, disse una volta. Non fu così.
fonte insideover.com