Sylvia Earle è la prima donna a esplorare gli abissi e paladina della tutela marina
DI STEFANIA BONACINAPUBBLICATO: 08/06/2024
Sylvia Earle è stata la prima donna a esplorare in solitaria un fondale marino. Nel 1968 ha stabilito il record d’immersione in sommergibile (1.000 metri) prima che i Beatles inneggiassero alla bellezza della vita in un Yellow Submarine («È stata per anni la colonna sonora del mio team!», commenta oggi). Nel 1970 ha diretto la prima spedizione di acquanaute della storia. «Allora non si parlava di salvaguardia, i giornalisti ci chiedevano soprattutto come riuscissimo a farci la piega a 50 metri di profondità, dove abbiamo vissuto per due settimane in una struttura sommergile», dice. Nella sua vita ha collezionato quindici lauree ad honorem, la sua pionieristica tesi di dottorato in botanica sulle alghe marine è ora patrimonio dello Smithsonian Institute e ha partecipato a decine di spedizioni scientifiche. «L’ultima è stata nel 2023 nell’arcipelago delle Lofoten, la prossima potrebbe essere nel Mediterraneo, anche se il mio sogno è raggiungere le profondità degli abissi», confida. Her Deepness, come l’ha soprannominata la stampa americana, ha anche convinto Google a realizzare la versione Ocean delle mappe (se ben usata, la tecnologia robotica può esserci molto utile nella conservazione dell’oceano) e l’allora presidente Obama a istituire la più grande area marina protetta al mondo, il santuario di Papahānaumokuākea alle Hawaii: «La nostra Terra è costituita per la maggior parte da oceani, non ha senso investire così poco nella loro conservazione. Proteggiamo – evviva! – il 15 per cento della terra con parchi e riserve, per gli oceani siamo sul 3 per cento…».
RELATED STORIES
La moda sostenibile è un privilegio?
La tutela degli oceani sta per cambiare
Quanta plastica si nasconde nei nostri vestiti?
Mission Blue è il documentario Netflix in cui racconta la sua vita: s’intitola come la fondazione (missionblue.org) che ha costituto per puntellare di Hope Spot, “aree di speranza”, il Pianeta blu. «Ero in Florida, dove sono cresciuta, quando c’è stato lo sversamento petrolifero del 2010 nel Golfo del Messico. Un disastro ambientale di quella portata ha reso evidente a tutti che eravamo vicini a un punto di non ritorno», osserva. L’istituzione degli Hope Spot, di cui si fa paladina in tutto il mondo, comporta la conservazione di luoghi che gli scienziati ritengono critici per la salute dell’oceano. L’ultima delle oltre 140 aree che Earle ha tenuto a battesimo, la prima nel Mediterraneo, è il Canyon di Caprera, la cui candidatura è stata sostenuta da One Ocean (1ocean.org), la fondazione istituita dallo Yacht Club Costa Smeralda per accelerare la conservazione degli oceani. La sua designazione, celebrata nel Principato di Monaco, è stata l’occasione per incontraci di persona. La più famosa oceanografa al mondo è una donna piccola di statura e minutissima, che esibisce un caschetto castano sbarazzino e un’elegante giacca di paillette celesti: «Prediligo indossare tutte le sfumature del blu», ammette sorridendo. Sylvia Earle, 87 anni, è una signora colta e affabile, che si infervora quando parla di salvaguardia degli oceani: «Non posso starmene tranquilla, nessuno lo farebbe se avesse visto quello che ho visto io! Voglio che tutti comprendano che l’oceano è la chiave della loro salute futura. Sta diventando ogni giorno più difficile contrastarne la devastazione, non è più possibile temporeggiare!».
Perché la conservazione degli oceani è una priorità?
Ha mai provato a raccogliere dell’acqua di mare con un bicchiere trasparente? È piena di creature, di vita. Lo stesso anno in cui abbiamo smesso di uccidere le balene, il 1996, gli scienziati hanno scoperto dei batteri blu e verdi che generano il 20 per cento dell’ossigeno che respiriamo sulla Terra, da milioni di anni. Solo nel XXI secolo stiamo iniziando a comprendere l’importanza dell’oceano per la salute del nostro pianeta e per l’umanità. Ci è voluto tempo per acquisire questa prospettiva: siamo terrestri per natura, le immersioni subacquee non hanno nemmeno un secolo di vita. Il problema è che la nostra specie sta cambiando la chimica dell’oceano, dunque le fondamenta stesse delle condizioni che rendono abitabile il nostro Pianeta, dimenticandosi che la cosa più importante che possiamo “estrarre” dalle sue acque è la vita stessa.
Qual è l’atteggiamento più irresponsabile?
Pensare di sfruttare l’oceano ulteriormente, usare gli abissi come discarica: è assurdo e pericoloso. L’eccesso di anidride carbonica imputabile alla combustione di fossili sta variando l’acidità dell’acqua e questa è una delle maggiori preoccupazioni degli scienziati. Da che sono bambina, poi, l’oceano è stato il luogo dove buttare i rifiuti. In pochi decenni questa abitudine ha creato un problema enorme, soprattutto per quanto riguarda i materiali durevoli come la plastica e le reti da pesca, imputabili per l’80 per cento dei rifiuti sui fondali perché non vengono smaltite e riciclate correttamente. In queste reti fantasma rimangono impigliate e uccise migliaia di creature marine: balene, leoni marini, tartarughe, pesci, al netto di quelle che continuiamo a uccidere non per sfamarci, ma per arricchirci. Stiamo cambiando la temperatura degli oceani, erodiamo le terre basse per edificare parcheggi, centri commerciali, hotel, distruggiamo le specie marine che trattiamo come prodotti di consumo. Vogliamo andare su Marte e ci preoccupiamo degli alieni ma siamo noi a comportarci come una specie aliena per la nostra Terra!
Siamo in tempo per fermare il cambiamento climatico?
Nella mia vita ho visto cambiamenti di portata geologica. Dobbiamo smettere di pensare all’oceano come a un bene di consumo, imponendo alla natura il costo del nostro stile di vita. Mio zio era cacciatore, commercializzava la vita selvatica per arricchirsi con cacciagione e pellame. Ha dovuto smettere quando non c’erano più creature da uccidere. Presto saremo in dieci miliardi sulla Terra: se ciascuno di noi volesse la sua parte di tonno blu, già non ce ne sarebbero abbastanza. Nel 1920 il sushi si poteva mangiare solo in Giappone, che senso ha ridurre delle creature selvatiche in una moda gourmand? Il mondo naturale sta cambiando più velocemente delle nostre abitudini. Metà dell’ecosistema marino, non solo le barriere coralline, è stata devastata in pochi decenni. Si dice che è a causa del cambiamento climatico, ma chi è responsabile del cambiamento climatico? L’uomo. Il lato positivo è che per risolvere un problema bisogna esserne consapevoli e ora sappiamo che la nostra specie è la causa del malessere degli oceani, ma può esserne anche la cura. Non c’è mai stato un momento più adatto di questo per agire, né ci sarà mai più.
Da dove si comincia?
Da un bagno in mare! L’esperienza diretta è la chiave per la tutela dei mari. A scuola non si insegna abbastanza storia naturale, eppure i bambini sono piccoli scienziati, amano osservare, capire il perché delle cose. L’ho visto coi miei nipoti, i miei figli, me stessa. L’oceano è stato il mio insegnante, ho passato l’adolescenza sul bagnasciuga. Tanti adulti vedendomi giocare con stelle marine e granchi ne erano spaventati, mi dicevano che erano pericolosi. Per fortuna, non i miei genitori. Puoi insegnare ai bambini la paura e la ferocia, o il rispetto e la meraviglia per le creature con cui condividiamo il Pianeta: parte tutto da qui.
Come descriverebbe l’oceano a un bambino?
È selvaggio e bellissimo. Non è piatto ma pieno di montagne e paesaggi diversi. Più che parlarne, gli farei indossare una maschera e lo porterei in acqua. I bambini non hanno le nostre limitazioni, comprendono da soli la ricchezza di vita che li circonda. Mi piacerebbe accompagnarli nel Canyon di Caprera, per esempio, un luogo eccezionale per la presenza dei cetacei e della foca monaca, che in Florida si è estinta. Oggi ci sono anche gli acquari dove incontrare le creature marine faccia a faccia. Non vivono libere, ma sono trattate con rispetto e cura. È un primo passo. Guardare negli occhi un pesce è una grande emozione e il modo migliore per imparare a conoscerlo e ascoltarne la voce. Perché l’oceano e le sue creature non sono affatto muti!
Se potesse essere una creatura marina per un giorno, quale vorrebbe essere?
Di certo mi divertirei a viaggiare come una balena. O vorrei essere un polpo: che incredibile sistema celebrale è il suo! Conosce quella canzone del Beatles? Octopus Garden… mi ha sempre divertita moltissimo. La risposta più vera alla sua domanda, da scienziata, è che vorrei essere un bimbo con la sua stessa capacità di stupore. Se smettessimo di stare all’asciutto e studiassimo la storia naturale, sapremmo che tutti noi esseri umani arriviamo da lì: siamo figli del mare.
fonte elle.com