“Antenati”: il nuovo libro di Giorgio Manzi fra scienza ed etica
“Antenati: Lucy e altri racconti dal tempo profondo” è il nuovo saggio divulgativo a firma di Giorgio Manzi che ci invita alla scoperta del nostro passato evolutivo, facendone apprezzare con forza le numerose implicazioni scientifiche ed etiche
Nel nostro secolo, non è tanto la salda fede in un’unica Verità, quanto l’intreccio plurale e sempre aperto di innumerevoli dimensioni a costituire il variopinto orizzonte esistenziale all’interno del quale si muove e opera la nostra specie. Un intreccio che la paleoantropologia, la scienza delle nostre origini, si propone di interpretare e raccontare. Sì, raccontare: un’espressione che ricorre insistentemente nei lavori di Giorgio Manzi sin dal titolo – basti pensare a Il Grande racconto dell’evoluzione umana (2013); L’ultimo Neanderthal racconta (2021)- e che appare anche in Antenati: Lucy e altri racconti dal tempo profondo, l’ultima fatica del paleoantropologo romano, pubblicato per il Mulino in occasione del 50° anniversario dalla scoperta dell’australopiteca Lucy. Ed è proprio attraverso il racconto che i dieci capitoli di Antenati trasportano il lettore in vari momenti di una storia plurale, di cui talvolta esistono diverse versioni, e che un bravo narratore deve cercare di tessere in maniera coerente. Giorgio Manzi, in questo, riesce davvero bene. Grazie a una piacevole prosa narrativa mai dimentica del rigore scientifico, ci troviamo immediatamente faccia a faccia con i nostri antenati, riuscendone a indovinare le fattezze, a sorprenderli nel loro quotidiano intenso e tragico insieme, a ricostruirne i percorsi di vita e di morte. A mo’ di cornice, in principio e in conclusione del lavoro, Giorgio Manzi aggiunge una particolare postilla: il sentito appello di un’immaginaria popolazione aliena che, testimone dell’evoluzione dell’uomo e della sua azione distruttiva sul pianeta, invita preoccupata a una maggiore responsabilità morale verso un ecosistema nel quale, in fin dei conti, Homo sapiens non è che un’effimera comparsa. E allora ci rendiamo subito conto che non possiamo restare indifferenti al portato etico di una scienza, la paleoantropologia, che oltre che “oggettiva” – fra mille virgolette – è, e dovrebbe restare, permeata di una soggettività mai banale e che si manifesta su più livelli. Vediamo meglio. Innanzitutto, si tratta di una soggettività costitutiva del procedere scientifico. Nel tempo abbiamo appreso che la scienza non esiste, ma che a esistere sono semmai le interpretazioni di una comunità plurale di ricercatrici e ricercatori, ciascuna con una propria visione del mondo. Tuttavia, proprio perché abbiamo a che fare con interpretazioni, c’è il rischio che si lasci libero corso ai pregiudizi ideologici dei singoli, come nel caso del celebre falso del cranio di Piltdown; o, ancora, dell’ostinata ipotesi che riteneva i resti umani dell’isola di Flores come esemplari patologici di uomo moderno e non, come oggi è assodato, appartenenti a un’altra specie del nostro genere, Homo floresiensis. Aggiungeremo allora che sebbene una certa soggettività morale si riveli invalidante per la genesi di una corretta interpretazione, è proprio questa stessa soggettività a poter (e dover) condurre a un certo rispetto nell’analisi dei reperti. Non dovremmo mai dimenticarne il valore culturale (Pikaia ne ha parlato qui). È infatti doveroso rammentare che dietro a numerosi ritrovamenti eccezionali, di cui possiamo ricostruire con cura le storie, si celano individui la cui vita è stata sovente stroncata in maniera brutale: pensiamo alla morte violenta di Ötzi e dell’uomo del Circeo, ma anche agli angosciati ultimi istanti dell’uomo di Altamura. Dunque, se è vero che nella ricerca scientifica è sempre bene mantenere un certo “distacco” dal proprio oggetto di studio, è tuttavia altrettanto importante valutare modalità e limiti di tale distacco. Questo dovrebbe valere ancor di più nel caso delle scienze della vita, proprio perché – in quanto sapiens– non possiamo esimerci da considerazioni etiche nei confronti di altri organismi, viventi o estinti. Raccontare diviene allora non un semplice artificio letterario, ma la stessa condizione perché le storie della scienza riacquistino quella vita che nel tempo profondo caratterizzò anche i suoi protagonisti, e la cui presenza è necessaria a coinvolgere noi, i loro posteri, verso una più diffusa coscienza morale del nostro passato e dei suoi retaggi scientifici, ideologici ed etici.