COLOSSEO, Anfiteatro Flavio
Il Colosseo, originariamente conosciuto come Amphitheatrum Flavium in italiano: Anfiteatro Flavio o semplicemente come Amphitheatrum, situato nel centro della città di Roma, è il più grande anfiteatro del mondo. In grado di contenere un numero di spettatori stimato tra 50.000 e 87.000 unità, è il più importante anfiteatro romano, nonché il più imponente monumento dell’antica Roma che sia giunto fino a noi. conosciuto in tutto il mondo come simbolo della città di Roma e uno dei simboli d’Italia.
Inserito nel 1980 nella lista dei Patrimoni dell’umanità dall’UNESCO, assieme a tutto il Centro storico di Roma.
L’anfiteatro è stato edificato in epoca Flavia su un’area al limite orientale del Foro Romano. La sua costruzione fu iniziata da Vespasiano nel 71/72 d.C. ed inaugurato da Tito nell’80, con ulteriori modifiche apportate durante l’impero di Domiziano nel 90. L’edificio forma un’ellisse di 527 m di perimetro, con assi che misurano 187,5 e 156,5 m. L’arena all’interno misura 86 × 54 m, con una superficie di 3.357 m². L’altezza attuale raggiunge 48,5 m, ma originariamente arrivava a 52 m. La struttura esprime con chiarezza le concezioni architettoniche e costruttive romane della prima Età imperiale, basate rispettivamente sulla linea curva e avvolgente offerta dalla pianta ellittica e sulla complessità dei sistemi costruttivi. Archi e volte sono concatenati tra loro in un serrato rapporto strutturale.
Il nome “Colosseo” si diffuse solo nel Medioevo, e deriva dalla deformazione popolare dell’aggettivo latino “colosseum” o, più probabilmente, dalla vicinanza della colossale statua acrolitica di Nerone che sorgeva nei pressi. Presto l’edificio divenne simbolo della città imperiale, espressione di un’ideologia in cui la volontà celebrativa giunge a definire modelli per lo svago e il divertimento del popolo.
Anticamente era usato per gli spettacoli di gladiatori e altre manifestazioni pubbliche (spettacoli di caccia, rievocazioni di battaglie famose, e drammi basati sulla mitologia classica). La tradizione che lo vuole luogo di martirio di cristiani è destituita di fondamento. Non più in uso dopo il VI secolo, l’enorme struttura venne variamente riutilizzata nei secoli, anche come cava di materiale. Oggi è un simbolo della città di Roma e una delle sue maggiori attrazioni turistiche sotto forma di monumento archeologico regolarmente visitabile.
Oggi le sue condizioni di salute destano preoccupazione, visto che studi sulla sua struttura hanno evidenziato oltre 3.000 lesioni e un esteso stato fessurativo. Inoltre, nel 2012 è avvenuta la scoperta di un’inclinazione di 40 cm della struttura, probabilmente a causa di un cedimento della platea di fondazione su cui poggia.
Storia
«Taccia la barbara Menfi il prodigio delle piramidi, né il lavoro degli Assiri esalti più Babilonia; né siano celebrati gli effeminati Ioni per il tempio di Diana; l’altare dei molteplici corni faccia dimenticare Delo; né i Cari portino più alle stelle, con lodi sperticate, il Mausoleo proteso nel vuoto. Ogni opera cede dinanzi all’Anfiteatro dei Cesari, la fama parlerà ormai d’una sola opera al posto di tutte»
(Marziale, Liber de spectaculis, 1-7-8)
Costruzione
La costruzione iniziò nel 72 d.C. sotto l’imperatore Vespasiano, della dinastia flavia. I lavori furono finanziati, come altre opere pubbliche del periodo, con il provento delle tasse provinciali e il bottino del saccheggio del tempio di Gerusalemme (70 d.C.)[senza fonte]. Nel 1813 fu rinvenuto un blocco di marmo reimpiegato in epoca tarda, che recava ancora i fori delle lettere di bronzo dell’iscrizione dedicatoria, in origine posta sopra un ingresso: il testo è stato ricostruito nel modo seguente:
(LA)«I[MP(ERATOR)] CAES(AR)
VESPASI[ANUS AUG(USTUS)]
AMPHITEATRU[M NOVUM]
[EX] MANUB(I)S [FIERI IUSSIT]»
(IT)«L’imperatore Cesare
Vespasiano Augusto
fece erigere il nuovo anfiteatro
con i proventi del bottino.»
(CIL VI, 40454a2.)
L’area scelta era una vallata tra la Velia, il colle Oppio e il Celio, in cui si trovava un lago artificiale (lo stagnum citato dal poeta Marziale), fatto scavare da Nerone per la propria Domus Aurea.
Questo specchio d’acqua, alimentato da fonti che sgorgavano dalle fondazioni del Tempio del Divo Claudio sul Celio, venne ricoperto da Vespasiano con un gesto “riparatorio” contro la politica del “tiranno” Nerone, che aveva usurpato il terreno pubblico e lo aveva destinato ad uso proprio, rendendo così evidente la differenza tra il vecchio ed il nuovo principato. Vespasiano fece dirottare l’acquedotto per uso civile, bonificò il lago e vi fece gettare delle fondazioni, più resistenti nel punto in cui avrebbe dovuto essere edificata la cavea.
Vespasiano vide la costruzione dei primi due piani e riuscì a dedicare l’edificio prima di morire nel 79. L’edificio era il primo grande anfiteatro stabile di Roma, dopo due strutture minori o provvisorie di epoca giulio-claudia (l’amphiteatrum Tauri e l’amphiteatrum Caligulae) e dopo 150 anni dai primi anfiteatri in Campania.
Tito aggiunse il terzo e quarto ordine di posti e inaugurò l’anfiteatro con cento giorni di giochi nell’80. Poco dopo il secondo figlio di Vespasiano, l’imperatore Domiziano, operò notevoli modifiche, completando l’opera ad clipea (probabilmente scudi decorativi in bronzo dorato)[8], aggiungendo forse il maenianum summum in ligneis e realizzando i sotterranei dell’arena: dopo il completamento dei lavori non fu più possibile tenere nell’anfiteatro le naumachie (rappresentazioni di battaglie navali), che invece le fonti riportano per l’epoca precedente.
Contemporaneamente all’anfiteatro furono innalzati alcuni edifici di servizio per i giochi: i ludi (caserme e luoghi di allenamento per i gladiatori, tra cui sono noti il Magnus, il Gallicus, il Matutinus e il Dacicus), la caserma del distaccamento dei marinai della Classis Misenensis (la flotta romana di base a Miseno) adibiti alla manovra del velarium (castra misenatium), il summum choragium e gli armamentaria (depositi delle armi e delle attrezzature), il sanatorium (luogo di cura per le ferite dei combattimenti) e lo spoliarum un luogo in cui venivano trattate le spoglie dei gladiatori morti in combattimento.
L’epoca imperiale
«Il Colosseo, la più bella rovina di Roma, termina il nobile recinto dove si manifesta tutta la storia. Questo magnifico edificio, di cui esistono solo le pietre spoglie dell’oro e de’ marmi, servì di arena ai gladiatori combattenti contro le bestie feroci. Così si soleva divertire e ingannare il popolo romano, con emozioni forti, quando i sentimenti naturali non potevano più avere slancio.»
(Madame de Stael)
Iscrizione apposta da Decio Mario Venanzio Basilio per celebrare i restauri del Colosseo, effettuati a sue spese dopo un terremoto (CIL VI, 32094)
Nerva e Traiano fecero dei lavori, attestati da alcune iscrizioni, ma il primo intervento di restauro si ebbe sotto Antonino Pio. Nel 217 un incendio, innescato presumibilmente da un fulmine, fece crollare le strutture superiori; i lavori di restauro fecero chiudere il Colosseo per cinque anni, dal 217 al 222, e i giochi si trasferirono al Circo Massimo. I lavori di restauro furono iniziati sotto Eliogabalo (218-222) e portati avanti da Alessandro Severo, che rifece il colonnato sulla summa cavea. L’edificio fu riaperto nel 222, ma solo sotto Gordiano III i lavori poterono dirsi conclusi, come sembra anche dimostrare la monetazione di questi due imperatori.Un altro incendio causato da un fulmine fu all’origine dei lavori di riparazione ordinati dall’imperatore Decio nel 250.
Dopo il sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti di Alarico, sul podio che circondava l’arena fu incisa un’iscrizione in onore dell’imperatore Onorio, forse in seguito a restauri. Onorio proibì i ludi gladiatori e da allora fu adibito alle venationes. L’iscrizione fu successivamente cancellata e riscritta per ricordare grandi lavori di restauro dopo un terremoto nel 442, ad opera dei praefecti urbi Flavio Sinesio Gennadio Paolo e Rufio Cecina Felice Lampadio. Costanzo II lo ammirò sommamente. Altri restauri a seguito di terremoti si ebbero ancora nel 470, ad opera del console Messio Febo Severo. I restauri continuarono anche dopo la caduta dell’impero: dopo un terremoto nel 484 o nel 508 il praefectus urbi Decio Mario Venanzio Basilio curò i restauri a proprie spese.
Le venationes proseguirono fino all’epoca di Teodorico. Abbiamo i nomi delle più importanti famiglie senatorie dell’epoca di Odoacre iscritte sui gradus: tale usanza è molto più antica, ma periodicamente i nomi erano cancellati e sostituiti con quelli dei nuovi occupanti (anche a seconda del diverso grado tra clarissimi, spectabilis e illustres), per cui restano solo quelli dell’ultima redazione prima del crollo dell’impero.
Dal Medioevo all’epoca moderna
Il Colosseo rappresentato in una mappa della Roma medievale.
Dopo l’abbandono fu adibito nel VI secolo ad area di sepoltura e poco dopo utilizzato come castello. Tra il VI e il VII secolo fu fondata all’interno del Colosseo una cappella oggi nota come chiesa di Santa Maria della Pietà al Colosseo. Sotto papa Leone IV fu gravemente danneggiato da un terremoto (847 circa)[8]. Il grande terremoto del 1349 provocò il collasso dell’esterno lato sud, costruito su un terreno alluvionale instabile. A lungo utilizzato come fonte di materiale edilizio, nel XIII secolo fu occupato da un palazzo dei Frangipane, successivamente demolito, ma il Colosseo continuò ad essere occupato da altre abitazioni. I blocchi di travertino furono sistematicamente asportati nel XV e XVI secolo per nuove costruzioni, e blocchi caduti a terra furono ancora utilizzati nel 1634 per la costruzione di Palazzo Barberini e nel 1703, dopo un altro terremoto, per il porto di Ripetta.
Benvenuto Cellini, nella sua Autobiografia, raccontò di una spettrale notte tra demoni evocati nel Colosseo, a testimonianza della fama sinistra del luogo.
Nel corso del Giubileo del 1675 assunse il carattere di luogo sacro in memoria dei molti martiri cristiani qui condannati al supplizio. Nel 1744 papa Benedetto XIV vi fece costruire le quattordici edicole della Via Crucis, e nel 1749 dichiarò il Colosseo chiesa consacrata a Cristo e ai martiri cristiani.
Nel 1787 durante il soggiorno di Goethe a Roma lasciò una descrizione enfatica del monumento visto di notte tra le pagine del suo Viaggio in Italia:
«Incantevole è soprattutto la vista del Colosseo, che di notte è chiuso; all’interno, in una cappelletta, vive un eremita e sotto le volte in rovina si riparano i mendicanti. Essi avevano acceso il fuoco sul terreno del fondo, e un venticello spingeva il fumo sopra tutta l’arena, coprendo la parte bassa dei ruderi, mentre le mura gigantesche torreggiavano fosche in alto; noi, fermi davanti all’inferriata, contemplavamo quel prodigio, e in cielo la luna splendeva alta e serena. A poco a poco il fumo si diffondeva attraverso le pareti, i vani, le aperture, e nella luce lunare sembrava nebbia. Era uno spettacolo senza l’uguale. Così si dovrebbero vedere illuminati il Pantheon e il Campidoglio, il colonnato di S. Pietro e altre grandi vie e piazze. E così il sole e la luna, non dissimilmente dallo spirito umano, hanno qui tutt’altra funzione che in altri luoghi: qui, dove il loro sguardo è fronteggiato da masse enormi, eppure formalmente perfette.»
(Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia)
Epoca contemporanea: i restauri ottocenteschi
Liberato in due grandi riprese, con gli scavi diretti da Carlo Fea, Commissario per le Antichità, nel 1811 e 1812 e con quelli di Pietro Rosa (1874-1875), agli inizi dell’Ottocento, oltre ad essere oggetto dei più fantasiosi progetti di riuso fino alla metà del Settecento, il Colosseo era staticamente compromesso, dopo esser stato per secoli abitato, adibito a luogo di culto cristiano ed utilizzato come cava di travertino. Uno dei principali e più evidenti problemi era l’interruzione brusca dell’anello più esterno nei lati in corrispondenza delle attuali via di San Giovanni in Laterano e via dei Fori Imperiali che furono non a caso oggetto dei restauri più importanti. Il Fea descrisse pure le possibili motivazioni della presenza di fori sulle pietre del monumento interpretandoli come sistema per rimuovere le grappe metalliche che tenevano unite le pietre.
L’intervento di Raffaele Stern
Sperone in laterizio aggiunto da Stern
Dopo l’istituzione di una commissione straordinaria da parte di papa Pio VII, i primi restauri iniziarono dopo il 1806, anno in cui un violento terremoto compromise la statica dei due lati liberi dell’anello più esterno. Il terremoto aveva particolarmente aggravato la situazione del terzo anello sul lato occidentale dove, a causa di conci ormai pericolanti, era richiesto un intervento di emergenza.
Dopo il puntellamento dei conci, furono immediatamente montati i ponteggi per la creazione di uno sperone che facesse da contrafforte. Raffaele Stern escogitò due modalità di intervento da sottoporre al vaglio dell’Accademia di San Luca: “per via di togliere”, che consisteva nell’eliminazione della parte di attico e delle arcate del terz’ordine danneggiate, soluzione scartata, e “per via d’aggiungere”, poi effettivamente realizzata con l’aggiunta di uno sperone in laterizio.
Le prime due arcate di ogni ordine furono tamponate e lo sperone rustico fu realizzato privo delle forme architettoniche delle arcate esistenti a causa dell’emergenza e della necessità di praticare l’intervento in economia e rapidità. Anche i conci puntellati, caricati successivamente di significato romantico e descritti come bloccati nell’atto della caduta, non sono in realtà che il frutto di un intervento d’emergenza. Stern aveva inizialmente pensato di tinteggiare lo sperone, poi ironicamente chiamato “stampella”, con un intonaco color travertino per evitare l’eccessivo contrasto con le parti autentiche, ma la tinteggiatura non fu mai realizzata.
L’intervento di Giuseppe Valadier
Sperone in laterizio aggiunto da Stern nel 1806
Giuseppe Valadier, che si era già interessato del Colosseo nel 1815 con un Progetto per chiudere decentemente l’Anfiteatro Flavio mediante cancellate, si occupò nel 1823 del recupero dell’anello perimetrale nel lato verso i fori. La differenza sostanziale fra l’impostazione del restauro di Stern e quello di Valadier è che, mentre il primo fu realizzato sotto il pericolo di un crollo imminente, l’altro poté essere praticato in tutta calma.
Dal punto di vista statico l’intervento consistette in un nuovo sperone, realizzato con arcate identiche alle originali. L’aggiunta, interamente in mattoni, fu costruita utilizzando materiale diverso rispetto all’originale per motivi economici, e non per una volontà di differenziazione, ad eccezione della basi e dei capitelli in travertino, messi in opera in maniera identica agli originali e con lo stesso livello di definizione. Anche in questo caso, per non guastare esteticamente la preesistenza, si progettò una scialbatura color travertino, mai realizzata.
Iscrizione di papa Pio IX del 1852 che ricorda i restauri eseguiti sul lato verso l’Esquilino
A dieci anni dall’inizio dei lavori, l’opera fu celebrata da Giuseppe Valadier al pari di una nuova architettura in Opere di Architettura ed Ornamento, ove descrisse ed illustrò minuziosamente il cantiere dalla costruzione delle impalcature alla fine del restauro, esaltandolo come una delle sue più grandi realizzazioni.
I lavori di Gaspare Salvi e Luigi Canina
Dagli anni trenta fino alla conclusione dei lavori avvenuta a metà del secolo, i lavori passarono sotto la direzione di Gaspare Salvi e Luigi Canina.
Il primo intervento di Salvi riguardò la parte più gravemente compromessa dell’intera costruzione rimasta in piedi: il terzo anello sul lato dell’attuale via San Gregorio. Su delle basi in travertino Salvi costruì un completamento con archi in laterizio su imposte di travertino; dagli archi fece partire dagli speroni per ricollegare la parte di nuova costruzione alla parte antica, che fu così staticamente assicurata. I nuovi archi sono segnalati da mattoni bipedali disposti radialmente. I riempimenti dei muri radiali sono realizzati in travertino al primo ordine ed in laterizio negli ordini superiori, mentre i pilastri di restauro sono interamente in mattoni. Alla morte di Salvi, Canina assunse la direzione dei lavori, risolvendo sullo stesso lato un problema di strapiombo verso l’interno della parte più alta della costruzione, che fu assicurata con tiranti in ferro ai contrafforti in mattoni di nuova costruzione