I disabili sono stroni e dicono un sacco di parolacce, ecchecca*o!

9 Novembre 2024 Blog

19 APRILE 2020 IACOPO MELIO
“I miracoli accadono“, libro di Brian Weiss, psichiatra e scrittore statunitense che affronta spesso, tra i suoi tanti temi, quello della reincarnazione. È stato proprio un passaggio da questa opera che oggi, con entusiasmo, mi è stato proposto. Peccato che, immediatamente, mi si sia accesa la lampadina della polemica (“strano”, state pensando, vero?). Ma andiamo con ordine..

“[…] Molte volte mi è stato chiesto perché mai delle anime evolute dovrebbero nascere in un corpo con disabilità dolorose. […] Molte anime, specie quelle evolute come Austin, sceglieranno di reincarnarsi in un corpo simile per imparare da quella esperienza diretta. Potrebbero aver vissuto numerose vite prendendosi cura degli altri, e ora devono imparare anche a ricevere amore. La loro decisione ha come scopo quello di permettere ad altri di esprimere amore. Un autistico avrà bisogno di essere imboccato e seguito, e ciò offrirà l’opportunità ad alcune persone di prendersi cura di lui e di agire mosse da altruismo e compassione. Perciò la condizione disabilitante non è la conseguenza di una punizione o di un cattivo karma, quanto piuttosto del desiderio immenso di aiutare altre anime ad avanzare nel loro cammino spirituale.
Esseri saggi e amorevoli sono sempre tra noi. È possibile che non li riconosciamo subito. È possibile che non li vediamo come maestri. La mente si intromette: «Come può questo bambino insegnare a me?». Il nostro cuore lo sa sempre.”

Okay. Respiro. Conto fino a cinquanta. Scrivo.

Chi mi segue davvero sa che un’affermazione simile è quanto di più distante ci possa essere da tutto ciò che porto avanti ogni giorno. La ritengo dannosa e controproducente, a partire dalla definizione di disabili come “anime evolute” (mi piacerebbe… o forse no), e adesso cerco di spiegare in modo più sintetico e semplice possibile – per l’ennesima volta – il perché, cogliendo questo utile esempio (nulla contro Weiss).

Se è vero che la disabilità non è una punizione (perché mai dovrebbe esserlo? In fin dei conti ci sono anche persone con disabilità che se la passano bene, fanno la bella vita, hanno avuto successo, svolgono un buon lavoro, o più semplicemente sono felici di ciò che hanno), è anche vero che non sono “anime evolute”: termine fortemente pietistico (d’altronde lo stesso Weiss parla di “accudire con compassione”, come se si debba necessariamente avere la sindrome da crocerossina per stare accanto ad un disabile).
Non siamo, noi persone con disabilità, angelicati o buoni per nostra natura. Pensarlo è oltremodo superficiale, discriminatorio e ipocrita. Perché se la società continua a vederci come fragili, continuerà al tempo stesso a sfruttarci per sentirsi migliori: Weiss, infatti, non a caso parla di “aiutare le altre anime ad avanzare nel cammino spirituale”.

In sostanza:
Io disabile ai tuoi occhi sono uno sfigato > Tu normodotato ti convinci di essere più fortunato di me.
Io disabile ho bisogno di aiuto quotidiano > Tu normodotato me ne dai, convincendoti di essere per questo una brava persona.
Logico, no?

Mi viene in mente una polemica nata qualche giorno fa sotto a un mio post di Facebook. Molto semplicemente: nel post ricordavo l’importanza dello stare a casa in tempo di quarantena e di come fosse necessario mantenere fermo il lavoro finché il picco della pandemia non fosse superato, a discapito dell’economia dei cittadini che, per questo, dovrebbero ricevere aiuti dallo Stato. Sotto il post, una signora scrisse che io non potevo capire perché, in quanto “giovane e neolaureato”, sicuramente ricevo supporto da parte dei miei genitori (cosa che lei stessa ha ammesso di aver avuto alla mia età).
Ora, premesso che non c’è niente di male ad essere mantenuti a ventisette anni dalla propria famiglia (perché di questo in soldoni si tratta se si parla di “ricevere supporto”), a patto che non dipenda dalla nostra volontà. Rimane il fatto che io, personalmente, lavoro da quasi dieci anni e non solo non chiedo un euro ai miei genitori, ma contribuisco spesso alle spese familiari. Questo io lo so bene, e lo sanno anche i miei genitori, la signora in questione invece non poteva saperlo non essendo la mia commercialista: dunque, la sua frase è stata usata più per convincersi che molti “giovani e neolaureati” si fanno mantenere dai genitori, un po’ come è accaduto a lei. Il che, ripeto, non è un crimine, e per quanto mi riguarda lo si può ammettere serenamente. Ma rimane il fatto che una generalizzazione simile serva a etichettare l’altro (giovane neolaureato = “mantenuto”) per alleggerire se stessi (che, da giovani neolaureati, magari siamo stati mantenuti). Vi ricorda qualcosa?

Ecco, sì, ho tirato fuori un esempio personale ormai passato, rigirando il coltello nella piaga perché la cosa non mi è andata proprio giù, non sopportando chi fa i conti in tasca agli altri senza conoscere le esigenze e le situazioni altrui. Avete visto? Anche i disabili possono essere stronzi, e acidi, e sputarti la verità in faccia se necessario o anche in modo gratuito se gli va e piace. Ho usato, infatti, la parola “mantenuto”, ma avrei potuto dire benissimo “fallito”. Sarei stato quasi sicuramente nel torto a farlo, ma ancora più stronzo, no?

 

 

Dunque torniamo a Weiss. Grazie a Dio che ci sono menti che si chiedono “come può questo bambino insegnare a me?”! Perché se partiamo dall’idea che i bambini con disabilità, tutti, ci insegnano qualcosa, sono bravi, buoni, intelligenti, simpatici, dolci… siamo noi i primi a discriminare. Lottare per la parità non è questo: è dire che i disabili sono persone, e in quanto persone possono sbagliare, essere maligni, nullafacenti, criminali, ignoranti e stupidi. Altro che “anime evolute”!

In conclusione: nessuno sta colpevolizzando chi, almeno una volta, si è commosso nel vedere una persona o un bambino con disabilità (e, magari, ha pure pensato quell’orrendo “poverino”…). Mi sto mordendo la lingua, ma sono consapevole che per buona parte dei casi si tratta di meccanismi inconsci, frutto di una cultura conservatrice (anche, aggiungo, fortemente cattolica) abituata alla carità “per benevolenza” piuttosto che all’assistenzialismo “per diritto”. Però dobbiamo parlarne e spiegare, e dobbiamo rendere le persone consapevoli affinché la loro prospettiva cambi, e cambi anche la percezione della disabilità stessa, normalizzandola.

Chi impara qualcosa dagli altri, e qui concludo, non lo impara da “bambini con disabilità” o “persone con disabilità”, ma da “bambini” o “persone”, punto. È solo questione, come per ogni incontro della vita, di botte di culo nel conoscere le “anime” giuste e non quelle sbagliate (per usare il termine di Weiss), a prescindere dalla loro salute fisica e mentale. Oddio, ora che ci penso ho detto “culo”: visto? I disabili dicono anche un sacco di parolacce, eccheccazzo!

L’importante è capire come bisognerebbe parlare, perché le parole sono fondamentali se vogliamo davvero trattare certe categorie di persone (persone) come tutte le altre. Aver voglia di migliorare, tutti quanti, e di conoscere le cose, ci fa solo onore. Perciò, grazie a chi desidera imparare a farlo, dicendo le cose come stanno senza filtri e vedendo gli altri per ciò che sono, nel bene e nel male. Solo così, veramente, si può combattere la discriminazione più invisibile. Perché ricordate bene: le barriere architettoniche nascono da quelle culturali, e finché non avremo ridato dignità ai cittadini con disabilità, non potremo mai sperare in un Paese realmente inclusivo. Per tutti.

fonte purpletude.com

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