L’urlo del pittore norvegese Edvard Munch.

3 Dicembre 2018 ArtinMUSE, Blog

L’urlo (titolo originale: Skrik) è il nome assegnato a una serie di famosi dipinti del pittore norvegese Edvard Munch. Quadro molto simile è L’ansia, sempre di Munch.

Furti


 
L’urlo (versione del 1910) protetto da una teca antifurto
Due sono stati i furti che hanno visto protagonista il celebre quadro di Edvard Munch:

la versione de L’Urlo (1893) esposta alla Galleria nazionale di Oslo è stata oggetto di un furto il 12 febbraio 1994, nello stesso giorno dell’inaugurazione dei XVII Giochi olimpici invernali: due uomini, infatti, in quel giorno si introdussero nel polo museale, rubando l’opera in soli cinquanta secondi e lasciando in luogo del dipinto un biglietto con scritto «grazie per le misure di sicurezza così scarse»;l’opera venne ritrovata integra tre mesi dopo in un albergo di Åsgårdstrand;
la versione de L’Urlo (1910) esposta presso il Museo Munch invece è stata oggetto di un clamoroso furto il 22 agosto 2004: oltre a L’Urlo venne sottratta un’altra opera dell’autore, La madonna; ambedue le tele vennero recuperate due anni dopo, il 31 agosto 2006, per poi tornare in esposizione al museo nel 2008, solo dopo un restauro di durata biennale per restituire l’aspetto originale delle due opere, lievemente compromesso a causa dell’umidità.

L’urlo rappresenta un sentiero in salita sulla collina di Ekberg[8] sopra la città di Oslo, spesso confuso con un ponte, a causa del parapetto che taglia diagonalmente la composizione; ebbene, su questo sentiero si sta consumando un urlo lancinante, acuto, che in quest’opera acquisisce un carattere indefinito e universale, elevando la scena a simbolo del dramma collettivo dell’angoscia, del dolore e della paura. Il soggetto urlante è la figura in primo piano, terrorizzata, che per emettere il grido (e non per proteggersene) si comprime la testa con le mani, perdendo ogni forma e diventando preda del suo stesso sentimento: più che un uomo, infatti, ricorda un ectoplasma, con il suo corpo serpentiforme, quasi senza scheletro, privo di capelli, deforme. Si perde insieme alla sua voce straziata e alla sua forma umana tra le lingue di fuoco del cielo morente, così come morente appare il suo corpo, le sue labbra nere putrescenti, le sue narici dilatate e gli occhi sbarrati, testimoni di un abominio immondo. Ma il vero centro dell’opera è costituito dalla bocca che, aprendosi in un innaturale spasmo, emette un grido che distorce l’intero paesaggio, che in questo modo restituisce una sensazione di disarmonia, squilibrio.[9] Questo sentimento di malessere non è esclusivo né dello sfondo, né dell’animo di Munch: è infatti distintivo del pessimismo fin de siècle diffuso in quel periodo, che cominciò a mettere in dubbio le certezze dell’essere umano, proprio mentre Sigmund Freud indagava gli abissi dell’inconscio.

A rimanere immutati e dritti sono esclusivamente il parapetto e i due personaggi a sinistra. Queste due figure umane sono sorde sia al grido sia alla catastrofe emozionale che sta angosciando il pittore: non a caso, sono collocate ai margini della composizione, quasi volessero uscire dal quadro. È in questo modo che Munch ci restituisce in modo molto crudo e lucido una metafora della falsità dei rapporti umani. Sulla destra, invece, è collocato il paesaggio, innaturale e poco accogliente, quasi fosse un’appendice dell’inquietudine dell’artista: il mare è una massa nera ed oleosa, mentre il cielo è solcato da lingue di fuoco, con le nuvole che sembrano essere cariche di sangue.


Lo spunto del quadro è prettamente autobiografico. È infatti lo stesso Munch a indicarci, in una pagina di diario, le circostanze che hanno portato alla genesi de L’urlo:

«Una sera camminavo lungo un viottolo in collina nei pressi di Kristiania – con due compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima. Il sole calava – si era immerso fiammeggiando sotto l’orizzonte. Sembrava una spada infuocata di sangue che tagliasse la volta celeste. Il cielo era di sangue – sezionato in strisce di fuoco – le pareti rocciose infondevano un blu profondo al fiordo – scolorandolo in azzurro freddo, giallo e rosso – Esplodeva il rosso sanguinante – lungo il sentiero e il corrimano – mentre i miei amici assumevano un pallore luminescente – ho avvertito un grande urlo ho udito, realmente, un grande urlo – i colori della natura – mandavano in pezzi le sue linee – le linee e i colori risuonavano vibrando – queste oscillazioni della vita non solo costringevano i miei occhi a oscillare ma imprimevano altrettante oscillazioni alle orecchie – perché io realmente ho udito quell’urlo – e poi ho dipinto il quadro L’urlo.»

Munch avrebbe poi rielaborato questo ricordo rendendolo un poema e segnandolo sulla cornice della versione del 1895:

«Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.»

In ogni caso, Munch tentò di trasporre questo tramonto «rosso sangue» in una tela in grado di restituire quella visione di «sangue coagulato» che egli stesso provò in quella sera d’estate. La gestazione di questo tramonto fu assai lunga, e richiese vari bozzetti e tentativi (le macchie rosse, caratteristiche dello sfondo de L’urlo, emergono violente già in Disperazione del 1891). Fu solo nel 1893 che Munch, meditando su questo soggetto, realizzò finalmente L’urlo, come parte di un ciclo di dipinti che egli stesso definì Fregio della vita. L’artista, tra il 1893 e il 1910, realizzò altre tre versioni del medesimo soggetto. La prima versione, del 1893 (74×56 cm), è un pastello su cartone; si tratta tuttavia di una composizione ancora embrionale che Munch andrà a ridefinire nella versione definitiva (91×73,5 cm), realizzata nello stesso anno. Due anni dopo, nel 1895, realizzò una terza versione (79×59 cm): si tratta di un pastello su tavola, battuto dalla casa d’asta londinese Sotheby’s il 2 maggio 2012 per la somma record di 120 milioni di dollari. L’ultima versione (83×66 cm), una tempera su pannello, è stata invece stesa nel 1910.

Nel 2004 alcuni ricercatori hanno supposto che il cielo color rosso sangue del quadro sia in realtà una riproduzione accurata del cielo norvegese dopo l’eruzione del Krakatoa del 1883, avvenuta dieci anni prima[6]. Tale ipotesi però è priva di una concreta base, visto che l’episodio risalirebbe all’estate del 1889 – sei anni dopo l’eruzione – quando, con gli amici Christian Krohg e Frits Thaulow (identificabili con le due silhouette del quadro), affittò una piccola abitazione nei pressi dell’Oslofjord.

il nostro Bolg…

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