9 Gennaio 2025 Blog

Septuaginta
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Settanta
(Bibbia dei Settanta)
Titolo originale
Septuaginta (titolo latino)

Settanta: una pagina del Codex Vaticanus
Autore
Traduzione in greco di 72 sapienti di Alessandria d’Egitto
1ª ed. originale
III secolo a.C.
Genere
testo sacro
Lingua originale
greco
Modifica dati su Wikidata · Manuale
La Versione dei Settanta (dal nome latino Septuaginta; indicata pure con LXX o Ο'[1] ovvero “70” secondo la numerazione latina o greca) è la versione dell’Antico Testamento in lingua greca. Essa è la traduzione di un testo ebraico antico leggermente diverso dal testo masoretico tramandato dal giudaismo rabbinico.

Secondo la lettera di Aristea sarebbe stata tradotta direttamente dall’ebraico da 72 saggi ad Alessandria d’Egitto; in questa città cosmopolita e tra le maggiori dell’epoca, sede della celebre Biblioteca di Alessandria, si trovava un’importante e attiva comunità ebraica.

Questa versione costituisce tuttora la versione liturgica dell’Antico Testamento per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca. La versione dei Settanta non va confusa con le altre cinque o più versioni greche dell’Antico Testamento, la maggior parte delle quali ci sono pervenute solo in frammenti; fra queste ricordiamo le versioni di Aquila di Sinope, Simmaco l’Ebionita e Teodozione, presenti nell’opera di Origene, l’Exapla. Nei testi in lingua inglese i LXX vengono spesso indicati con OG (Old Greek, ovvero “Antica versione greca”).

Secondo una tradizione uno dei 72 saggi che tradussero il Tanakh in greco fu Simeone il Vecchio, al quale lo Spirito Santo annunciò che non sarebbe morto prima di aver visto il Messia (Luca 2,26).

Origine
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Tolomeo II Filadelfo parla con alcuni dei 72 dotti ebrei (dipinto di Jean-Baptiste de Champaigne)
La traduzione del Pentateuco secondo la tradizione giudaica
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L’origine della traduzione è narrata dalla Lettera di Aristea a Filocrate, oggi considerata un testo pseudoepigrafico della metà del II secolo a.C. Secondo tale racconto, il sovrano egiziano Tolomeo II[2] (regno 285-246 a.C.) commissionò personalmente alle autorità religiose del tempio di Gerusalemme una traduzione in greco del Pentateuco per la neonata biblioteca di Alessandria. Il sommo sacerdote Eleazaro nominò 72 eruditi ebrei, sei scribi per ciascuna delle dodici tribù di Israele (in alcune narrazioni successive semplificati a 70), che si recarono ad Alessandria e vennero accolti con grande calore dal sovrano. Stabilitisi nell’isola di Faro, completarono la traduzione in 72 giorni grazie al loro lavoro comune. Sin qui Aristea.

La narrazione sulla traduzione si è poi modificata e arricchita. In primis, già in ambiente giudaico, si diffuse la leggenda che i 72, separati nelle loro celle, avessero prodotto il medesimo testo in maniera indipendente. Solo al termine del lavoro, comparando fra loro le versioni, avrebbero constatato l’identicità delle rispettive traduzioni. Tale leggenda sorse in ambienti che desideravano affermare il carattere ispirato della versione, probabilmente in opposizione alla tendenza palestinese di matrice farisaica a correggere il testo tradotto in direzione di quella forma ebraica che sarebbe stata poi accolta dal Rabbinato e a noi pervenuta nella redazione masoretica. Si osservi che il numero 72 corrisponde al nome di Dio (JHWH) secondo la gematria.

Il numero dei 72 traduttori è confermato anche da varie fonti rabbiniche, prima fra tutte la Megillah 9a-b del Talmud babilonese. Il Rabbinato conosce però anche una tradizione secondo cui i traduttori furono solamente cinque. Settanta sarebbero comunque i membri del Sinedrio (sanhedrin) che approvò la conformità fra testo tradotto e originale.[senza fonte].

Valutazioni dei biblisti
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Anche senza tenere conto delle successive evoluzioni narrative, già la Lettera di Aristea potrebbe contenere elementi leggendari: la congruenza tra i 72 traduttori e i 72 giorni impiegati per tradurre appare forzosa; poco verosimile sembra soprattutto la possibilità di reperire, in data così tarda, scribi esperti e bilingui fra tutte le dodici tribù (dieci delle tribù risultano difficili da tracciare già dopo la caduta del regno di Israele nel 722 a.C. e la conseguente deportazione degli abitanti in Mesopotamia).

Ciononostante si è costituito un certo consenso tra gli studiosi contemporanei, riguardo a una traduzione della Tōrāh in Alessandria d’Egitto sotto Tolomeo Filadelfo. La richiesta del re ellenistico e il contributo “dall’alto” del tempio di Gerusalemme potrebbero essere una leggenda volta a conferire autorevolezza al testo. I Greci normalmente non erano interessati ai testi degli altri popoli e anche il caso parallelo e contemporaneo dell’egizio Manetone non pare essere stato suscitato dall’interessamento di Tolomeo. Tuttavia la città di Alessandria ospitava un intero quartiere giudaico e non è del tutto inverosimile che il sovrano fosse interessato a conoscere la Legge che gli Ebrei seguivano. In tal caso il lavoro potrebbe essere stato realizzato da ebrei autoctoni di lingua greca per l’uso liturgico della nutrita comunità giudaica, ormai ellenofona, come per lo più confermato dalle coeve iscrizioni giudaiche in lingua greca reperite in situ. Secondo questa interpretazione, la traduzione sarebbe stata solo in seguito accolta nella celebre biblioteca.

È perciò più probabile che la Lettera sia stata composta nella seconda metà del II sec. a.C. dopo il tentativo di ellenizzazione forzosa da parte di Antioco IV Epifane, quando in Palestina potrebbe avere cominciato ad affermarsi un testo ebraico stabile all’interno dei circoli farisaici. La distruzione dei libri sacri ebraici ordinata da Antioco, infatti, dovrebbe avere ridotto enormemente il numero di varianti ancora presenti nelle poche copie superstiti. La Lettera sarebbe stata scritta per contrastare l’insoddisfazione per le discrepanze fra il nuovo testo ebraico e la versione greca. Essa sarebbe perciò preziosa per cogliere l’alta considerazione che la versione godeva presso una parte del giudaismo del Secondo Tempio.

La traduzione degli altri libri
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Per la traduzione dei restanti libri l’opera fu realizzata da una scuola di traduttori che si occupò del salterio, sempre ad Alessandria, verso il 185 a.C.; in seguito furono tradotti Ezechiele, i Dodici Profeti minori e Geremia. Dopodiché vennero fatte le versioni dei libri storici (Giosuè, Giudici e i quattro libri dei Regni) e infine Isaia. Altri libri, Daniele, Giobbe e Siracide furono tradotti entro il 132 a.C. A parte il Pentateuco e il Salterio, di origine appunto alessandrina, vi sono incertezze sulla località in cui vennero tradotti gli altri libri. Si situa invece in Palestina nel I secolo a.C. la versione del Cantico dei cantici, delle Lamentazioni, di Rut ed Ester, poi quella dell’Ecclesiaste, certamente tardi nel I secolo d.C., in quanto più prossima alla tecnica di traduzione poi esibita da Aquila.

La revisione “kaighé”
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Già nei manoscritti antichi e perciò sin dalle prime edizioni a stampa alcune parti dell’antico testo greco sono state sostituite con una versione rivista per maggiore aderenza all’ebraico, spesso attribuita a Teodozione, ma in realtà prodotta sotto l’influenza del rabbinato palestinese in data anteriore al 50 d.C. e perciò anteriore al periodo in cui Teodozione sarebbe vissuto. Questa versione è oggi chiamata dagli specialisti “kaige” (pronuncia: kaighé) perché caratterizzata dal fatto che la congiunzione ebraica וְגַם (= “gam”), normalmente tradotta in greco con “kai” (= “e”) viene invece tradotta con καὶ γέ (= “kai gé”), conferendogli così sfumatura asseverativa (“e certo”). La terminologia è nata dagli studi di Dominique Barthelemy su un manoscritto del Libro dei Dodici Profeti Minori ritrovato a Qumran e anteriore appunto al 50 a.C.[3] Barthelemy si rese conto che esisteva un’intera famiglia di manoscritti biblici con queste caratteristiche. Nei LXX appartengono alla kaighe il libro di Daniele e fra i libri storici i versetti da 2 Sam 11:2 a 1 Re 2:11 (detto dagli specialisti: “Regum βγ” o “kingdoms βγ”) e i versetti da 1 Re 22:1 a 2 Re 24:15 (“Regum γδ” o “Kingdoms γδ”) e altre parti minori.

Manoscritti antichi
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I più antichi manoscritti dei LXX comprendono frammenti di Levitico e Deuteronomio, risalenti al II secolo a.C. (Rahlfs nn. 801, 819, e 957), e frammenti del I secolo a.C. di Genesi, Levitico, Numeri, Deuteronomio e Profeti minori (Rahlfs nn. 802, 803, 805, 848, 942, e 943). Manoscritti relativamente completi dei LXX sono il Codex Vaticanus e il Codex Sinaiticus del IV secolo e il Codex Alexandrinus del V secolo. Questi peraltro sono i manoscritti quasi completi più antichi dell’Antico Testamento: il testo ebraico completo più antico risale al 1008 (Codex Leningradensis).

Differenza con il Testo Masoretico
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Differenze nel canone
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Nella versione dei Settanta troviamo anche dei libri non presenti nel canone ebraico definito nel I secolo d.C. e quindi con il Testo masoretico, la versione più in uso presso gli ebrei, che trovò probabilmente forma definitiva quasi quattrocento anni dopo la versione dei Settanta.

I seguenti libri sono invece entrati nel canone cattolico e quindi riportati nelle versioni latine successive. Essi sono detti libri deuterocanonici dai cattolici e apocrifi dai protestanti, che per l’Antico Testamento seguono il canone ebraico:

Aggiunte al Libro di Ester[4]
Giuditta
Tobia[5]
Primo e Secondo libro dei Maccabei
Sapienza di Salomone (Sapienza)
Sapienza di Siracide (Siracide o Ecclesiastico)
Baruc
Lettera di Geremia (Conservata nella Bibbia latina come ultima parte [6] di Baruc)
Preghiera di Azaria e Cantico dei tre giovani nella fornace (Daniele 3,26-45 e 3,52-90)
Susanna (Daniele 13)
Bel e il Drago (Daniele 14)
I seguenti libri invece non sono entrati nel canone cattolico e non sono pertanto presenti nelle versioni latine successive.

Primo libro di Esdra[6]
Terzo e Quarto libro dei Maccabei
Il breve Salmo 151[7]
Odi, inclusa la Preghiera di Manasse[8]
Salmi di Salomone

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