La giustizia di Dio e quella degli uomini. Da Dante a Bulgakov
di Stefano Maria Capilupi+
Non per “imporre” un orizzonte teologico in un mondo laico, ma per suggerire del tutto laicamente di studiare meglio la tradizione culturale cristiana come interlocutore degno di ascolto in una situazione internazionale di conflitti che necessita ancora di più di spunti di dialogo e pacificazione perlomeno culturali
23 Novembre 2024 alle 07:43
Segui i temi
libri+
Un dialogo inconsapevole con il cattolicesimo passato e futuro
È noto, soprattutto dalla lettera di Nikolaj Ljubimov dell’11 giugno 1879, che primo oggetto della critica di Dostoevskij nel contesto del Poema di Ivan Karamazov non erano i cattolici, ma i socialisti; il che, peraltro, non toglie la possibilità della visione di un «socialismo cristiano» nel romanzo (si veda anche la «solidarietà sociale» descritta dal personaggio del Visitatore Misterioso). Il figlio di Ljubimov scrive inoltre nelle sue memorie: «Ricordo che […] all’inizio, nel manoscritto di Dostoevskij, tutto ciò che dice il Grande Inquisitore sui miracoli, il mistero e l’autorità, poteva essere riferito al cristianesimo in quanto tale, ma Katkov convinse Dostoevskij a rifare alcune frasi e, fra l’altro, a inserire quella che dice: “Noi abbiamo preso Roma e la spada di Cesare”; in tal modo, non c’era dubbio che si trattasse esclusivamente del cattolicesimo. Con ciò ricordo che nello scambio di opinioni Dostoevskij insisteva sul principio della corretteza dell’idea di base del Grande Inquisitore, che tocca egualmente tutte le confessioni cristiane, ossia l’esigenza pratica di aprire le alte verità del Vangelo alla comprensione e ai bisogni spirituali della gente semplice». Papa Benedetto XVI, nell’Enciclica Spe salvi (2007), cita i Fratelli Karamazov, coronando in tal modo un dialogo in parte inconsapevole con il cattolicesimo iniziato dallo stesso Dostoevskij; lo fa analizzando il problema sottile del rapporto fra giustizia – che nella nostra analisi leghiamo alla memoria – e Grazia (alias il perdono), nel quadro della speranza, paradossalmente doverosa per un cristiano, nella salvezza di tutti: «Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche Grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e Grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La Grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoevskij nel suo romanzo I fratelli Karamazov». Ribadiamo: se si prende in considerazione il romanziere, e non il pubblicista, la questione datata di un Dostoevskij semplicemente anticattolico è stata già da tempo superata, anche grazie a profondi pensatori russi come Nikolaj Berdjaev e Vjačeslav Ivanov (questʼultimo come noto convertitosi al cattolicesimo). Berdjaev scrive: «Il contesto e la veste cattolica del Poema non sono essenziali. Ed è possibile prescindere in toto dalla polemica contro il cattolicesimo». Peraltro, l’assenza del Poema sul Grande Inquisitore nella lunghissima versione cinematografica dei Fratelli Karamazov (1968) in epoca sovietica dice ancora una volta quanto, da un punto di vista ermeneutico, il vero idolo polemico del Poema risulti in primis il totalitarismo in quanto tale.
Dostoevskij “Dante russo”
Non a caso e più di una volta sia in Il Tragico e la Speranza. Da Manzoni a Dostoevskij (Edizioni Lithos 2020), che in Fëdor Dostoevskij. Il Poema del Grande Inquisitore. Fra Teodicea e Modernità (Castelvecchi 2022) faccio riferimento a Dante Alighieri: la similitudine tra gli «ignavi» del Limbo e le figure di don Abbondio e di Stavrogin; il desiderio di Dostoevskij di competere con il grande poeta italiano nella descrizione dei peccati umani e della loro possibile redenzione; il titolo di «Dante russo» datogli da Herzen già allʼuscita di Memorie di una casa morta; la riflessione di Bachtin su come il mondo dello scrittore russo sia simile alla comunione dei credenti nella Chiesa e al mondo dellʼAlighieri.
Il “Peccato” di Dante
Dante desiderava portare l’umanità verso la condizione di felicità di cui scrisse nellʼEpistola a Cangrande della Scala:«Tuttavia brevemente si può dire che si tratta di allontanare i viventi dallo stato di miseria e condurli a quello di felicità». La dantista russa Nina Elina osserva che «nella Commedia, come in tutte le altre opere di Dante scritte in esilio, si rivela distintamente la sua aspirazione a contribuire al miglioramento del genere umano, guidandolo verso quella unità e armonia che egli stesso percepiva nello scrivere la Vita Nova». Dostoevskij: «…a volte Dio mi manda minuti in cui sono completamente calmo, in questi minuti amo e scopro di essere amato dagli altri, e in quei minuti ho costruito un simbolo di fede in cui tutto è chiaro e sacro per me». Riconoscendosi peccatore egli stesso, Dante si pone, poi, come rappresentante – in quanto tale – di tutta l’umanità peccatrice, e non solo degli innumerevoli dannati che affollano l’Inferno: è l’uomo Dante, infatti, il personaggio protagonista del Poema. E così come Enea, salvando sé stesso dalla distruzione della patria, compie innumerevoli atti epici, eroici per porre – secondo il volere del Fato – le fondamenta storiche della futura Roma, Dante, autore della Commedia, si fa protagonista del racconto del suo viaggio ultraterreno; ed auspica che il racconto di ciò che ha visto nei tre Regni ultraterreni possa servire, oltre che alla salvezza della propria anima, di monito e contributo per la salvezza dell’intera umanità. In questo percorso soteriologico la memoria e l’oblio delle colpe e delle imprese umane ricoprono entrambi un ruolo decisivo.
Il rapporto fra la memoria e lʼoblio come eredità classica
I temi della memoria e dell’oblio hanno, nella letteratura occidentale, una storia molto antica. Ne dà una bellissima panoramica Caterina Salabè nel suo saggio Memoria e oblio alle origini della letteratura europea. I poemi di Omero e di Esiodo, risultato di un lungo periodo di sedimentazione di tradizioni orali, mostrano come la memoria e l’oblio abbiano nell’età arcaica radici prodondamente religiose. La memoria in principio era una dea: Mnemosyne, dea per certi aspetti spaventosa, poiché appartenente alla prima generazione delle figlie di Gea e di Urano, le Titanidi, e dunque detentrice di una sapienza ai confini con il Caos primordiale. Esiodo fu il primo a menzionarla, nella letteratura, esaltandone in particolare il ruolo di madre delle Muse, nate dalla sua unione con l’olimpico Zeus. Anche l’oblio compare nella Teogonia di Esiodo, come personificazione divina in Lethe. A differenza di Mnemosyne, la dea Lethe è caratterizzata negativamente, in quanto discende dalla Notte e dal Caos, ed è figlia di Eris, la Discordia «dal cuore violento». La dea Lete impone un oblio non ʽdolceʼ come quello (ʽlesmosyneʼ) del Sonno (Hypnos) indotto dal canto delle Muse, ma ʽferreoʼ come la morte (Thanatos).
Il canto delle Muse è una negazione di Lete, poiché esse posseggono il privilegio di cantare ʽil vero ʼ: ʽAlethejaʼ, termine la cui relazione etimologica con Lethe è del tutto evidente – la verità è il dis-velato, ciò che viene dis-coperto, Lethe è invece sinonimo di nascosto, e quindi di obliato. Lete appartiene alla Notte e al Silenzio, tanto che dopo Esiodo diviene metafora degli Inferi, ma è anche il nome di uno dei cinque fiumi che vi scorrono insieme a Stige, Acheronte, Flegetonte e Cocito. Le sue acque hanno il potere di far dimenticare alle ombre dei morti la vita terrena, oppure, come nella Repubblica (621) di Platone o nell’Eneide (libro VI) di Virgilio, la vita ultraterrena prima della metempsicosi.
Il rapporto fra il desiderio, la memoria e lʼoblio in Dante
Diversamente, nella Commedia di Dante, il fiume Lete è situato nel Paradiso terrestre, alla sommità del monte del Purgatorio, il bagnare il capo nel quale – con palese richiamo al rito purificatore del Battesimo – permette alle anime lì giunte di purgarsi, di liberarsi per sempre della memoria delle cose terrene e dei loro peccati, prima di poter ascendere al Paradiso Celeste e alla visione beatifica di Dio. Dopo aver assistito alle punizioni ed al pentimento dei suoi personaggi, nel Paradiso terrestre anche Dante deve rispondere delle proprie azioni peccaminose al cospetto di Beatrice che, come sappiamo, «è simbolo della Saggezza Divina». Qui Dante deve affrontare il suo ultimo e più amaro pentimento. La ʽcolpaʼ più grave di Dante secondo lo studioso russo Michail Andreev è quella di voler oltrepassare «i limiti creati da Dio» per l’uomo: la colpa, cioè, di «una fiducia smisurata nelle proprie forze e nel proprio intelletto – e perciò peccaminosa –; l’ambizione di raggiungere la conoscenza assoluta senza l’aiuto di Dio. Dante uomo e personaggio confessa la propria colpa e si autoaccusa. E dopo aver lavato la memoria del peccato nelle acque del Lete, acquisisce purezza e la necessaria disposizione per salire alle stelle (Purg. XXXIII, 145). Affidandosi poi a Bernardo, prega Dio di addentrarlo nei segreti sacrali della fede». Oltre al Lete, nel Paradiso terrestre c’è un altro fiume, l’Eunoè, che ricorda sorprendentemente il Mnemosyne presente nelle opere di Pausania e negli antichi misteri orfici. Se il Lete è il fiume dell’oblio, della purificazione dai peccati, l’Eunoè è il fiume della memoria felice, ovvero della memoria delle buone azioni compiute nella vita.
Quando Dante, come trasognato, si avvicina alle acque del Lete, vede una bella donna solitaria che canta e raccoglie fiori, Matelda. Ella spiega al poeta la struttura del Paradiso Terrestre, la fonte divina dei due fiumi e dopo la confessione di Dante, prima di immergli il capo nel Lete, gli mostra il futuro tramonto e la rinascita della Chiesa. Matelda, infine, fa bere a Dante l’acqua dell’Eunoè. A questo punto Dante rinasce spiritualmente, riacquista la padronanza di sé, torna al desiderio e alla libera volontà che lo fanno approssimare a Dio, ovvero a scegliere la via che lo porterà verso la vera fonte della dignità umana. Nel «poema sacro» (Par. XXV, 1), la Grazia Divina si avvale, per la salvezza spirituale dell’uomo Dante, di tre guide simboliche del suo viaggio ultraterreno: Virgilio (saggezza, ragione, intelletto umano), Beatrice (teologia, sapienza divina), Bernardo (illuminazione mistica), che il poeta offre come modello da seguire, come imperituro ‘mementoʼ per l’intera umanità.
Compassione antica e moderna fra il divino e lʼumano
Proprio Bernardo (tramite per Dante che «prega Dio di beneficarlo, consentendogli di penetrare nei segreti sacrali della fede») offre ora un anello importante di congiunzione con la tematica della salvezza nel mondo poi manzoniano e dostoevskiano. «Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis» sottolineava Bernardo. Dio Padre, a differenza del Figlio, non patisce nella veste di ‘Uomo’, ma ciò non significa che ‘non compatisca’. E, simmetricamente, Dio Padre compatisce profondamente gli uomini e quindi li ama tanto quanto il Figlio, ma conserva allo stesso tempo in Sé uno spazio incontaminato da ogni sofferenza, dove l’amore è solo felicità, e questo spazio è proprio il Regno che il Figlio promette agli uomini alla fine dei tempi. Si tratta qui degli orizzonti divino-umani e trinitari di una compassione che possa essere totale e assoluta nel Figlio (Deus est compassibilis), ma rimanga al contempo solo gioia pura scevra di dolore nel Padre (Deus est impassibilis). Una speranza di vita eterna che è amore inteso come sacrificio assoluto per lʼAltro, sì, ma senza dolore né dellʼio, né, tanto meno, dell’Altro. La Terra e la Storia sono invece intrise della Croce (simbolo di un dono per l’Altro, dimensione di ogni esistere, che non può invece non essere anche doloroso), unica via possibile di amore.
È qui forse il cuore del tragico cristiano, che porta con sé anche il mistero dell’armonia necessaria e impossibile fra memoria assoluta e assoluto perdono, mistero risolto nel Purgatorio di Dante dalla visione dei due fiumi. Quell’armonia che Ivan Karamazov rifiuta in nome della memoria, restituendo il biglietto per il Paradiso; ma senza la quale lo stesso Ivan impazzisce, schiacciato dal mistero della responsabilità universale, che di per sé esige anche, come propria origine, il mistero della libertà. «La compassione è la più importante e, forse, l’unica legge dell’esistenza di tutta l’umanità», è il pensiero espresso dal principe Myškin nel romanzo L’idiota.
La funzione principale e anche il tormento principale, per gli eroi di Dostoevskij, è come poter congiungere in un unicum felicità e compassione. Anche in questo sta la profondità universale dellʼautore russo. Dal punto di vista teologico cristiano, «Deus est impassibilis, sed non est non compassibilis» (Bernardo di Chiaravalle): Dio Padre custodisce in sé un regno misterioso ed eredità eterna per gli uomini in cui il miracolo dell’amore si trova in una gioia di empatia reciproca libera da qualsiasi tormento; amore che sulla terra è invece sintesi irrisolta di passione per il piacere da un lato, e compassione nel dolore, dall’altro. Ciò vale a comprendere e a superare quella combinazione quasi impossibile ma necessaria di perdono e di memoria di tutto e di tutti, il cui fantasma e il cui rifiuto costringe Ivan Karamazov a «restituire il biglietto per il Paradiso».
Dostoevskij e Bulgakov
Nella letteratura russa di fine Ottocento e inizio del Novecento si realizza fra Fëdor Dostoevskij e Michail Bulgakov un immaginario, ideale dialogo teologico sul problema del rapporto fra memoria infinita e perdono infinito nella prospettiva e nella possibilità della salvezza escatologica. Il primo, in Ivan Karamazov, sottolinea l’irrinunciabilità della memoria, il secondo sembra preferire l’oblio (è la risposta di Iešua a Ponzio Pilato sulla scia dei raggi lunari in Il Maestro e Margherita). Eppure entrambi rimandano a un orizzonte teologico diverso, apofatico, e all’anelito verso una memoria altra, diversa da quella umana. Solo una memoria ʻdivinaʼ difatti, nell’ottica cristiana, rende possibile il perdono. In questo contesto, nel romanzo di Bulgakov sono due le immagini alle quali è doveroso rivolgere una particolare attenzione. Woland, alla fine del grande ballo, beve dal calice alla salute dell’essere, dal calice in cui si è trasformata la testa ancora viva di Berlioz, che ha creduto nel non-essere per tutta la vita. Ciò significa che nel cronotopo della grande letteratura i concetti di essere e non-essere risultano inadeguati: anche Satana può alzare un bicchiere per il primo, e un ateo testardo, arrivato persino a negare non solo la possibilità della risurrezione, ma la stessa esistenza storica di Gesù, può cadere nel secondo, con suo ormai inutile rimpianto. Ossia, si tratta di nuovo dell’oblio. A tal proposito, ricordiamo il pensiero di Dionigi l’Areopagita, ad evidenziare la relatività di qualsiasi definizione umana dell’Assoluto, anche negativa: Dio non è l’essere e non è il non-essere. Pertanto, la profondità filosofica e letteraria della teologia apofatica appare qui nella sua interezza. E la Croce di Gesù è, molto probabilmente, ‘esattamente’ il nihil da cui Dio ha creato il tutto – «in Lui tutte le cose sono state create» (Col 1, 16, e nella liturgia), – e tale Croce si rivela di nuovo come il mistero cristiano più profondo, anche quando si trova eretta sul Golgota in tutta la sua concretezza davanti agli occhi di un uomo sorpreso, sofferente o colpevole.
Persino il noto filosofo francese contempraneo Nancy, che si proclama pensatore non cristiano, si interessa tuttavia anche del problema speculativo della creatio ex nihilo e afferma che l’unica legittimazione possibile di questo concetto, dato che dal nulla nulla si crea, è la creazione nel mistero chenotico e sacrificale del Cristo. Secondo Michail Bulgakov, Cristo-Iešua che cammina sulla strada di luce della luna (molto simile al fiume dell’oblio di classica e dantesca memoria) insieme a Ponzio Pilato alla fine del romanzo, rispondendo alla richiesta insistente di Pilato «Ti prego, dimmi, non ci fu nessuna esecuzione?», pronuncia le seguenti parole: «Certo che non ci fu […] te lo sei solo sognato!». È difficile dire se Iešua parli della postuma e lunga punizione della solitudine e del silenzio sulla luna vissuta dall’uomo Pilato, o della sofferenza provata dagli uomini nella storia del mondo, o della Passione del Cristo. Piuttosto, di tutte queste varie manifestazioni di punizione e sofferenza insieme, da cui consegue che la salvezza si realizza solo nell’oblio, e che la sofferenza passata è solo un ʽsognoʼ. Ciò è completamente opposto alla tesi di Ivan Karamazov di Dostoevskij, secondo la quale o la salvezza è nella piena memoria di tutto e di tutti, o essa è semplicemente da rifiutare, anche se viene offerta, come teologicamente necessario, a tutti: per Ivan sia la punizione che il perdono degli aguzzini sono in ultima analisi entrambi senza senso e non riscattano niente e nessuno; e così si spiega la restituzione di Ivan a Dio del biglietto per il Paradiso.
La libertà del prepotente non giustifica teologicamente la schiavitù della vittima
Grazie soprattutto a Giuseppe Di Giacomo, ho potuto infine realizzare e mostrare un’approfondita ricerca sul rapporto fra la Provvidenza in Manzoni e la Redenzione in Dostoevskij. Il Dio del Manzoni parla il linguaggio della libertà e del coraggio. Quando Don Rodrigo insulta direttamente il principio di libertà, dichiarando che se il frate tiene davvero così tanto a Lucia, allora non ha altra scelta che affidarla alla sua protezione, Fra Cristoforo divampa: «Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a queste quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate».
L’ira giusta di Fra Cristoforo contro certi potenti ricorda allo stesso tempo i dubbi terribili e il je s’accuse teologico ed escatologico di Ivan ne I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Qui viene portata alle estreme conseguenze logiche la questione terribile della Teodicea, scienza che se da un lato appare come l’erede moderna del Lamento del Giobbe vecchiotestamentario, dall’altro solo nel Rinascimento italiano, grazie a Machiavelli e Guicciardini, e poi nella versione classica ed esplicita del tedesco Leibniz, e quindi nella critica parodistica di Voltaire, aveva sostituito l’accento agostiniano, medievale e dantesco sulla giustizia divina e la vita eterna con quello modernissimo sulla ricerca di una giustizia terrena e sulla compassione umana. Sia il finale in realtà tutt’altro che univoco de I Promessi Sposi, sia la celebre restituizione al Mittente del biglietto di entrata allo spettacolo dell’armonia da parte di Ivan Karamazov, mostrano il ben noto paradosso storico dell’Ingiustizia. Trattasi della prospettiva possibile e terribile dell’inerme, dell’indifeso – la Lucia manzoniana o il ragazzo fatto uccidere dai cani di caccia dal latifondista russo ne I fratelli Karamazov – che Dio lascia misteriosamente nelle mani del prepotente. La Teodicea capovolta di Ivan Karamazov pone un quesito realissimo nei confronti del quale la suprema legge della Compassione decantata anche dal Principe Myškin esige dalla fede autentica solo un profondissimo silenzio in attesa della Seconda Venuta, accanto tuttavia alla lotta più indefessa e coraggiosa per la giustizia terrena: come si fa a capire, a giustificare un Creatore che rende il prepotente libero di scegliere fra il bene e il male, con lo scopo forse di farlo crescere liberamente nella fede e nell’amore, mentre dà non di rado alla vittima solo ed esclusivamente la possibilità del sacrificio? Una risposta appare in anticipo nello stesso Manzoni: solo la fede in Dio crea la possibilità della Redenzione per l’Innominato, che diventa la salvezza materiale di Lucia. E solo la fede in Dio dona coraggio e consolazione a milioni di martiri: togliere loro anche quella vorrebbe dire ucciderli una seconda volta.
Quindi, sia grazie al diabolico brindisi di Woland, sia grazie alle risposte angeliche di Alëša al fratello maggiore Ivan nel romanzo I fratelli Karamazov, entrambe le tesi – la tesi bulgakoviana sulla possibilità di un oblio se non addirittura di una revoca celeste del passato storico, e quella di Ivan Karamazov sul senso assoluto della memoria umana – arrivano alla sintesi propria della teologia apofatica. Solo nella memoria di Dio, il Dio dei mistici e il Dio dei popoli, e non nella memoria umana (che, secondo Bulgakov, è peggio dell’oblio), lʼuomo può non cancellare, ma salvare e trasformare la sofferenza.
Per una poetica e una teologia della Responsabilità
Questa è anche la sintesi del pensiero simbolico e figurativo di Dante Alighieri, che introduce il fiume Eunoè nella Commedia: dimenticare i propri peccati nel fiume Lete, cioè perdonare sé stessi per perdonare gli altri. E nel fiume Eunoè, il fiume della memoria del bene, è possibile riscoprire la propria dignità umana. È questa la condizione che rende possibile il perdono. L’equilibrata combinazione di Grazia e Giustizia si trova nel misterioso spazio che esiste tra il regno della memoria e il regno del perdono. Per unire speranza e memoria e rendere possibile il perdono, è necessario che l’uomo si renda, insieme a Dio, ‘responsabile’ sia del male che del bene storicamente realizzatisi. Questo riguarda, da un punto di vista teologico, la dialettica tra la Grazia e il Merito, fra Teodicea – giustificazione di Dio – e Antropodicea – giustificazione dellʼuomo. Dal punto di vista della fede, risulta improprio vedere in ogni bene una sorta di Grazia che provenga, inspiegabilmente, dall’alto, al di là di qualsiasi patto tra Dio e l’uomo; e vedere in ogni male una colpa che inevitabilmente abbatte lʼuomo. Risulta altresì improprio essere orgogliosi della contemplazione del bene realizzato, poiché un tale approccio impedirebbe di renderlo una condizione immediata per un ulteriore bene. E sarebbe estremamente fuorviante vedere in ogni male solo ed esclusivamente l’ennesima prova della non esistenza di Dio, e quindi dell’impossibilità della risurrezione dei corpi e della trasfigurazione della materia. Rendersi corresponsabili del bene compiuto significa continuare a realizzarlo in collaborazione con Dio, affinché tale bene possa accrescersi. Rendersi corresponsabili del male compiuto significa mantenerlo nel ricordo, che può anche comprendere, senza che li si tema, la debolezza o il desiderio di potere che possono aver causato quel male. Dal punto di vista della fede cristiana, Dio allo stesso tempo prende su di Sé tutto il male, perché Egli stesso ha deciso nel Figlio di essere responsabile di tutto ciò che fanno le Sue creature. Qui stiamo parlando di una sorta di Teodicea per nulla ordinaria: l’uomo non cerca più di giustificare Dio, ma piuttosto accetta la ʽcorresponsabilitàʼ di Lui in ogni male storico ed esistenziale, e in ogni bene che è stato mostrato e promesso per il futuro. La tragedia di Ivan Karamazov è, in ultima analisi, quella di chi pensa che il senso dell’amore sia solo nel donare alla persona amata o l’illusione di non morire, o la grazia di non essere mai nato. Ivan non considera la vita come un dono, e quindi non può trasferire questo dono a coloro che ama. In un impeto, in uno slancio emotivo, e non nella vera gioia, egli conviene con il fratello Alëša che l’unica via d’uscita è «amare la vita», e che solo grazie a questo «troverai il suo significato».
In un’ottica di fede, e col pensiero di nuovo alla problematica della colpa e della memoria, già Dante nella Divina Commedia sembra voler consolare in anticipo l’Ivan Karamazov che si agita nel cuore di ciascun lettore: «Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento per udire / come Dio vuol che ’l debito si paghi. / Non attender la forma del martìre: / pensa la succession; pensa ch’al peggio / oltre la gran sentenza non può ire» (Purg. X, 106–111).
La poetica e la teologia della gioia
La gioia che si trovava nel Paradiso Terrestre, in cui la Matelda dantesca sorride, sembra qualcosa che precede sia la ragione ansiosa dell’antichità, che non accettava la morte, sia la fede solidale e inquieta del cristianesimo più autentico. Questo genere di fede cristiana cerca tuttora di comprendere il problema della sofferenza associata alla morte: come «fede dei figli» – che secondo la Patristica non è quella dei servi spaventati o dei mercenari interessati, ma ama il Padre qui e ora senza il pensiero rivolto al castigo o alla ricompensa ultraterreni, – indaga il senso di questo connubio di vita e di morte. Non a caso nei Fratelli Karamazov si ricorda il primo miracolo di Cristo: la festa nuziale di Cana di Galilea. Perché proprio la promessa di felicità eterna rende la memoria di Dio e il dolore divino-umano un mistero assoluto, che si estende ben oltre le pagine dei romanzi di Dostoevskij e Bulgakov. Bulgakov, con amore e oblio di tipo ‘romantico’, allevia i suoi eroi dal peso insopportabile della memoria. Alla domanda di Ponzio Pilato se l’esecuzione fosse stata veramente eseguita, Cristo (che aveva precedentemente risposto in Dostoevskij con un bacio silenzioso) dà una risposta condiscendente, mostrandogli non il suo corpo risorto con le stimmate – come fa nella Bibbia al dubbioso Tommaso – ma il volto, per così dire, socratico del filosofo Iešua, che Ponzio Pilato aveva incontrato in vita e a cui aveva chiesto cosa fosse la verità (Aletheja, il ʽdis-velatoʼ). Quella verità, aveva risposto lo Iešua del romanzo, era il mal di testa che non lo abbandonava, e che il destino gli avrebbe assegnato anche sulla luna dopo la morte, nella forma di una lunghissima solitudine nellʼattesa del nuovo incontro con Iešua. Tuttavia, l’icona del Cristo risorto e allo stesso tempo eternamente sanguinante si erge allo stesso modo, nascosta o palese, davanti ad entrambi: Ivan Karamazov, martire per la memoria, e il Ponzio Pilato di Bulgakov, salvo nell’oblio. Sulla copertina della mia prima monografia russa si trova l’Incredulità di Tommaso di Duccio di Boninsegna (Siena, Museo dell’Opera del Duomo): l’icona del Cristo che appare all’apostolo Tommaso, e di questi che tocca le Sue ferite. Tradizionalmente l’osservatore, secondo la denominazione del dipinto, pone l’attenzione sull’apostolo, divenuto nei secoli esempio e metafora di chi, nei più vari momenti e situazioni della vita ordinaria, cerca sempre lʼesperienza diretta di ogni cosa, prima di sostenerne la veridicità o la falsità, l’utilità o la pericolosità. Tuttavia la centralità e il paradosso del mistero sta proprio nel Cristo, ovvero nelle Sue ferite eterne. Per amare su questa terra è indispensabile essere solidali con il dolore altrui, ossia essere capaci di vera compassione. Ma per comprendere ed essere solidale con il dolore altrui, lʼuomo deve prima aver sofferto, e la vita non gliene risparmia lʼoccasione. Risulta indispensabile, per una vera speranza cristiana, credere che il dolore e la compassione, così necessari a un vero rapporto di amore, ossia di chenosi e di dono di sé su questa terra (fatto evidente financo nel Cristo, che mantiene addirittura la memoria del dolore nelle Ferite anche dopo la Resurrezione), non lo siano e non lo debbano essere nella dimensione del Paradiso e dell’Eterno al di là del tempo. E questa possibilità sarebbe tutelata, in unʼottica di fede, in Dio Padre. Infatti allʼinterno della Trinità l’essere e l’essere per l’Altro sono un unicum: il Padre è completamente il Padre nel Figlio e nello Spirito, il Figlio è completamente il Figlio nel Padre e nello Spirito, lo Spirito è completamente lo Spirito nel Padre e nel Figlio. Lo proclamò il Concilio di Firenze (1442), proprio nella speranza di riconciliare ortodossi e cattolici, – speranza la cui negazione, nonostante l’approvazione del metropolita Isidoro, venne proprio dalla Rus’ moscovita, ansiosa di giocare un ruolo egemone in vista della fine imminente di Costantinopoli. Eppure questa dimensione chenotica intratrinitaria non è segnata dal dolore. Il dolore è riscattato e assunto nel Figlio, è vero, ma è assente e deve essere assente nel Padre: Deus non est incompassibilis, sed est impassibilis, rovesciando, ma non contraddicendo Bernardo di Chiaravalle. Perché, pur riconoscendo che l’essere autentico è nellʼamore ovvero nel sacrificio e nel dono di sé, l’ottica di fede esige che tale dono di sé sia possibile anche nella gioia pura ed eterna, incontaminata dal dolore.
Per il dialogo fra credenti e non credenti
Queste riflessioni ci portano quindi a orizzonti ecumenici sempre attuali. Le faccio non per “imporre” un orizzonte teologico in un mondo laico, ma per suggerire del tutto laicamente di studiare meglio la tradizione culturale cristiana come interlocutore degno di ascolto in una situazione internazionale di conflitti che necessita ancora di più di spunti di dialogo e pacificazione perlomeno culturali. La dignità del dolore e la fede nella gioia, che sottolineo in questo testo come componenti di una comune speranza, – impossibile quanto sempre necessaria, – sia laica che giudeocristiana, non hanno peraltro e non devono avere niente a che fare con un discorso di acquiescenza al dolore o di giustificazione idilliaca dello status quo. Il dolore deve essere degno da portare, e l’arte aiuta sempre l’uomo in questo, ma nello stesso tempo il dolore necessita dialetticamente di una lotta con esso come con ogni forma di morte e di ingiustizia, proprio in virtù della fede nella gioia. Questa gioia a sua volta va intesa come orizzonte irrinunciabile dell’essere, e non come maschera obbligatoria di allegria nel circo del potere e della violenza.