9 Gennaio 2025 Blog

Teodicea
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La Creazione di Adamo, affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina, a Roma
La teodicea (“giustizia di Dio”, dal greco theos, dio e dike, giustizia) è una branca della filosofia (teologia) che studia il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza nel mondo del male; per tale motivo, è anche indicata come teologia naturale e, nel XIX secolo limitatamente alla cultura francese, come teologia razionale.

Origine del termine
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(LA)«Si Deus est, unde malum? Si non est, unde bonum?»
(IT)«Se Dio esiste, da dove [viene] il male? E se non esiste, da dove [viene] il bene?»
(Leibniz[1])
Il termine “teodicea” fu coniato dal filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz,[2] che lo usò come titolo dell’opera Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal (Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male), redatta nel 1705 ma pubblicata, senza l’indicazione dell’autore,[3] ad Amsterdam nel 1710. Egli lo intese come sinonimo di teologia naturale e di teologia filosofica.[4] Il suo significato etimologico deriva dai lemmi greci theós (dio) e díkē (giustizia), ovvero “dottrina della giustizia di Dio”. Leibniz, tuttavia, utilizza il termine “teodicea” come significato generale per indicare la dottrina sulla “giustificazione di Dio per il male presente nel creato”. Il filosofo tedesco intraprese questi saggi dopo la lettura critica del Dictionnaire historique et critique (Dizionario storico e critico) del filosofo francese Pierre Bayle (1647-1706), pubblicato a Rotterdam nel 1697. Nella sua opera, Leibniz attribuisce il male del mondo alla libertà offerta da Dio alle sue creature, dimostrando, a suo dire, come la prescienza divina sia conciliabile con la libertà umana.

La concezione del male nella cultura babilonese
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Lo stesso argomento in dettaglio: Teodicea babilonese.
È nel II millennio a.C. che appare l’importante opera religiosa e mitologica babilonese Enūma eliš, nella quale il dio Marduk, grazie al dio della giustizia An, guardiano delle leggi divine, viene messo sul trono. Emerge quindi l’ilūtu, l’essenza degli dei che si accompagna a ellu la loro luminosità, il loro splendore. Marduk, divinità della famiglia Hammurabi, prende il posto del dio Enlil e, nel racconto epico-religioso, corrisponde alla vittoria dell’ordine-bene-luce sul caos-male-oscurità. Dal dio Ea, su indicazione di Marduk, verrà creato il primo uomo, affinché questi possa servire gli dei con le sue offerte rituali. Da notare che l’uomo viene plasmato con le ossa ed il sangue di Kingu (figlio di Tiāmat, dea originaria, che Marduk fa a pezzi insieme a Kingu che la voleva difendere; dalle loro ossa e sangue Marduk forma l’universo e gli esseri umani). In questo racconto religioso, il bene emerge da un indistinto primordiale di bene-male e che il male sia tra i più antichi esseri e che «l’Origine delle cose sia talmente al di là del bene e del male da generare ad un tempo il principio tardivo dell’ordine, Marduk, e le figure tardive del mostruoso e che essa debba essere distrutta e superata in quanto origine cieca.»[5]

La teodicea nella cultura ebraica
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Lo stesso argomento in dettaglio: Problema del male e Libro di Giobbe.
Il libro di Giobbe
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Giobbe è un uomo devoto a Dio, un uomo giusto, che non ha mai fatto male a nessuno. Improvvisamente, delle catastrofi sconvolgono la vita di Giobbe: egli perde tutti i suoi beni materiali, i suoi figli vengono uccisi, il suo corpo si ricopre di piaghe. Per Giobbe, queste disgrazie sono ancora più dolorose, proprio perché rendono indecifrabile la legge divina: nascono così le sue domande, prima fra tutte la seguente, rivolta a Dio: “È forse bene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi?”.[6] Tale domanda è solo una della lunga serie di quesiti che nascono dalla considerazione dell’esistenza del male nel mondo: com’è compatibile l’esistenza di Dio e la sua bontà intrinseca con il male nel mondo, sia esso fisico, metafisico o morale?

Giustizia retributiva
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« Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: «È stato concepito un uomo!». »   ( Giobbe 3, 1-3, su laparola.net.)
 
 
Tra gli amici accorsi al capezzale dove Giobbe si trovava, il primo a intervenire è Elifaz. Per tentare di “giustificare” quanto è appena accaduto, l’amico rievoca un principio teologico della religione ebraica, la giustizia retributiva: come il benessere e la felicità sono il premio che Dio assegna ai giusti, così la sofferenza è la punizione inflitta agli ingiusti (e questo avviene non nell’aldilà, ma nella vita terrena). Dunque, sostiene Elifaz, la sofferenza di Giobbe è il segno che egli ha peccato, per cui Dio lo sta punendo. Quindi viene anticipata una tendenza classica della teodicea: il male fisico è la conseguenza del male morale, ossia la punizione che Dio manda agli uomini per i loro peccati.

La reazione di Giobbe, tuttavia, è esattamente in direzione opposta alle parole dell’amico, il cui atteggiamento insincero sarà condannato da Dio alla fine del libro:

«I miei fratelli sono incostanti come un torrente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono […] Istruitemi e allora io tacerò, fatemi capire in che cosa ho sbagliato. […] Su, ricredetevi: non siate ingiusti! Ricredetevi; io sono nel giusto!»
(Giobbe[7])
Ciò dimostra che, effettivamente, il principio della giustizia retributiva (limitato esclusivamente alla vita terrena) non è valido.

La sofferenza degli innocenti
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« Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi? La loro prole prospera insieme con loro, i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. »   ( Giobbe 21,7-10, su laparola.net.)
 
 
Le parole di Giobbe risultano comprensibili alla luce di quanto detto: egli, mentre è in preda ad atroci dolori, si sente dire proprio dall’amico che tale sofferenza “se l’è meritata”; Giobbe, invece, sa di essere innocente, infatti egli è il simbolo della sofferenza innocente. Invano gli amici si ostineranno nel ricercare un peccato nella vita di Giobbe che possa giustificare quanto è accaduto. Non c’è una risposta unilaterale di fronte alla sofferenza degli innocenti: ognuno può assumere diverse posizioni, ma è possibile ricondurle (o quantomeno confrontarle) a quattro possibili reazioni.

Le possibili reazioni
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È un dato di fatto che nel mondo molti innocenti soffrono e molti malvagi prosperano. Essenzialmente, si può reagire in quattro modi diversi:

Si possono chiudere gli occhi, fingere d’ignorarlo ed attenersi al principio di giustizia retributiva originale (cioè non esteso alla vita ultraterrena). È quello che fanno gli amici di Giobbe, sostenendo Elifaz. Tale atteggiamento insincero sarà condannato da Dio alla fine del libro, perché dimostra che essi non sono pronti a vivere fino in fondo la loro fede, non osano “metterla alla prova” e farle sopportare il contrasto dell’esperienza.
Si può interpretare questo fatto come prova che Dio non esiste: la distribuzione nel mondo della felicità e della sofferenza non è operata da una giustizia divina, ma è casuale, insensata, oppure corrisponde a logiche costituite nella natura e nella società umana (concetto ben rappresentato da Dostoevskij con la figura di Ivan ne I fratelli Karamazov). È questo un punto di vista ateo.
Si può concepire una divinità indifferente (deus otiosus) alle vicende umane, che si chiude nella sua perfezione. Questa era una prospettiva autorevole nel mondo greco antico: il primo motore immobile di Aristotele e gli dei di Epicuro ne sono un classico esempio. Invece nel libro di Giobbe una simile posizione è, come la seconda, inammissibile, in quanto il monoteismo ebraico (ma anche cristiano e islamico) si fonda sulla figura di un Dio creatore del mondo che se ne prende cura.
Infine, si può optare per una teologia diversa, estendendo la giustizia retributiva alla vita ultraterrena oppure invocando l’incommensurabilità della sapienza di Dio e l’imperscrutabilità del suo volere (il Deus absconditus di 45, 15[8], presente sia nella teologia negativa che nella teologia dialettica di Karl Barth).
Nessuna di queste vie è aperta per Giobbe. Egli, infatti, non può dimenticare le atroci sofferenze che ha patito, ma è fermamente convinto dell’esistenza di Dio, del suo amore per gli uomini e della sua giustizia. Giobbe, quindi, chiama in causa Dio:

 
« Fammi solo due cose e allora non mi sottrarrò alla tua presenza: allontana da me la tua mano e il tuo terrore più non mi spaventi. Interrogami pure e io risponderò, oppure parlerò io e tu ribatterai. Quante sono le mie colpe e i miei peccati? Fammi conoscere il mio delitto e il mio peccato. »   ( Giobbe 13, 20-23, su laparola.net.)
 
 
La sofferenza come prova
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Il solo fra gli amici di Giobbe in grado di dire qualcosa di nuovo è Elihu, il più giovane di essi. La sua posizione è diversa, perché dissocia la sofferenza dalla colpa: Jahvè fa soffrire gli uomini per spingerli verso la salvezza. La sofferenza è una prova a cui Dio sottopone l’uomo con fine salvifico. Il discorso di Elihu si distacca, quindi, sia da Giobbe che dagli altri tre amici, sostenitori di Elifaz.

 
« Può forse farti uscire dall’angustia il tuo grido, con tutti i tentativi di forza? Non sospirare quella notte, in cui i popoli vanno al loro luogo. Bada di non volgerti all’iniquità, poiché per questo sei stato provato dalla miseria. Ecco, Dio è sublime nella sua potenza; chi come lui è temibile? »   ( Giobbe 36,19-22, su laparola.net.)
 
 
È dal discorso di Elihu che nasce la teodicea, poiché il giovane amico di Giobbe tenta di giustificare la “condotta” di Dio. Come Elihu, tutti i filosofi ed i teologi della teodicea cercheranno di dare una spiegazione razionale alla presenza del male nel mondo.

Conclusione del libro
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Alla fine del libro, Dio si manifesterà a Giobbe con la magnificenza di un’epifania tra le nubi, una vera e propria teofania. Lo annichilirà mostrandogli la sterminata potenza della creazione e lo rimprovererà per aver preteso di capire cose troppo più grandi di lui. Jahvè, però, riconoscerà a Giobbe la sua vera fede e per questo lo premierà.

 
« Il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato. Così possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie […] Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni. »   ( Giobbe 42,12-13,16-17, su laparola.net.)
 
 
Un vero e proprio lieto fine, indubbiamente. Ma Dio non spiega esattamente a Giobbe il perché di tutta la sofferenza che gli ha inflitto: il perché è, quindi, il problema all’origine della teodicea. L’intero libro di Giobbe, in senso lato, rappresenta una domanda esistenziale che si pone l’uomo quando è afflitto dal dolore senza cause razionali: perché il male?

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